Non si ha più diritto a un'assistenza per vivere?

di Benedetta Frigerio
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Ciò in cui si trasforma un sistema sanitario nel caso in cui preveda come via d’uscita alla malattia l’omicidio (eutanasia, suicidio assistito, dat), lo esemplifica bene il caso di un cittadino canadese. Roger Foley, canadese di 42 anni, affetto da una patologia neurodegenerativa, ha denunciato il sistema sanitario del suo paese che gli ha offerto come soluzione alla malattia l’eutanasia gratuita. Ma quando Foley ha rifiutato chiedendo aiuto a vivere, e non a morire, le cose si sono complicate.


A denunciare il caso è l'Euthanasia Prevention Coalition riprendendo le immagini andate in onda sulla CTV News a cui l’uomo ha raccontato che la soluzione non può essere «la morte assistita», ma se mai «l’assistenza a vivere». Purtroppo però il sistema sanitario dell’Ontario ha risposto all’uomo fornendogli un’assistenza domiciliare carente: «Mi hanno somministrato terapie sbagliate, mi hanno dato da mangiare cibo che mi ha intossicato», ha denunciato Foley che per questo motivo è stato ricoverato d’urgenza. Non solo, perché «gli operatori si addormentavano nel mio salotto, dispositivi ed elettrodomestici venivano dimenticati accesi e sono stato ferito duranti gli esercizi o gli spostamenti». Per ben due volte Foley è stato ricoverato per incidenti avvenuti in casa con il personale dell’assistenza domiciliare. 

Ma l'Ontario dispone anche del “Self-Directed Personal Support Services”, ossia di un servizio di assistenza domiciliare diretto dalla persona che lo richiede. Per questo Foley ha domandato di poter accedere al servizio. Cosa può alleviare infatti le sofferenze di questo malato? Forse un sistema sanitario che gli dà come opzione quella di levarsi di torno? Ken Berger, il suo avvocato, ha risposto così: «Un ‘assistenza autonomamente diretta potrebbe alleviare di molto la sua sofferenza». Ma la richiesta è stata negata l’anno scorso, perciò Berger ha chiarito: «Non volevamo arrivare fino a questo punto, ma non ci hanno lasciato alternative».

Ma non era in nome della libertà di scelta che l’eutanasia era stata resa legale in Canada come in tutti i paesi che la contemplano? È ironico che il giudice federale Wilson-Raybould abbia affermato che il suicidio assistito «protegge i più vulnerabili», perché il caso concreto di Foley mette in luce cosa accade quando la vita viene relativizzata. Sopratutto se sofferente e debole: perde di valore, depotenziando la volontà di curare fino alla fine ogni essere vivente. Machale Bach, vice presidente della Canadian Association for Community Living, ha spiegato sempre alla CTV News che «questo è il problema: l’assistenza medica a morire è vista come un intervento fra gli altri di assistenza sanitaria». Come lamentarsi quindi se lo stesso sistema sanitario poi non fornisce cure adeguate alle persone gravemente handicappate la cui vita si può considerare priva di "qualità"?

Ma Foley si è rifiutato sia di tornare a casa, sia di morire. E siccome il sistema pubblico non lo ritiene idoneo all’assistenza auto-diretta, è rimasto in ospedale, nonostante gli sia stato comunicato che le spese di ricovero giornaliero (1.800 dollari) graveranno su di lui. Insomma, invece che sostenere nella vita chi soffre, una volta che la morte legale diventa diritto e quindi valore riconosciuto dallo Stato, un disabile non solo si trova a dover combattere contro la malattia, ma addirittura contro un sistema che lo spinge a morire. Aggiungendo alla pena fisica una pena morale fra le più tremende: il disprezzo della vita come risposta al bisogno più estremo che sia accolta.
Per approfondire:
Antonella Vian, Eluana e l'amore di Dio (il caso di Eluana Englaro trattato alla luce della Fede, dello Spirito e della Verità, attraverso l’esperienza diretta avuta dall’autrice con la stessa Eluana).

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