NUOVA USCITA! La divinizzazione della sofferenza

 

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Soffrire non piace a nessuno e il dolore è umanamente incomprensibile e inaccettabile. Tuttavia Cristo si è fatto carico di questo mistero nella maniera più drammatica: ha accettato la Passione ed è morto per amore. La sua passione, morte e resurrezione è lo spartiacque che divide il non-senso da una sofferenza che può acquistare significato se unita a quella di Gesù. Anche noi siamo invitati a prendere parte alle sofferenze di Cristo, accettando la croce, le umiliazioni e le persecuzioni, fatti non casuali ma provvidenziali perché permessi da Dio per la nostra e altrui salvezza. Guardare a Gesù e imitarne l’umanità è la sola via tracciata davanti a noi per unirci anche alla sua gloria.

Aborti su commissione per realizzare i vaccini

 Cari amici,

ecco la documentazione che ho ricevuto - certamente non esaustiva ma sufficiente per un fermo no ai vaccini cannibali. Non si tratta più di un dubbio, non si tratta di un paio di aborti fatti 50 anni fa - come se questo rendesse meno grave il fatto - ma di una vera e propria industria che fa dell'aborto la sua prima fase operativa. E di aborti commissionati con precisione dettagliata. Se la Congregazione per Dottrina della Fede acquisisse questi documenti sarebbe ancora dell'idea che certi vaccini sono moralmente leciti?

Prof. Giovanni Zenone Ph.D.

Direttore

Fede & Cultura Universitas

Elenco di vaccini disponibili contro il COVID 19 e l’utilizzo di cellule derivate da feti umani abortiti per la sperimentazione (HEK293 e PER-C6). Nella colonna di destra vi sono vaccini NON etici, in quella di sinistra vaccini etici. Alcuni vaccini che trovate nella colonna di sinistra riportano (scritta in rosso) che sono stati testati su cellule di feti umani abortiti (tratto dal sito di Children of God for Life):

https://cogforlife.org/wp-content/uploads/CovidCompareMoralImmoral.pdf

 

Elenco dei Vaccino anti-Covid 19 sviluppati a partire da linee cellulari derivate da feti umani abortiti (segnati col triangolino rosso) e dei vaccini etici (segnati dal quadrato verde). Tratto dal sito del Lozier Institute for Science and Statistic:

https://lozierinstitute.org/update-covid-19-vaccine-candidates-and-abortion-derived-cell-lines/

 

Elenco dei vaccini contro la rosolia, la parotite, il morbillo, la rabbia, la poliomelite e il vaiolo considerati non etici, perché realizzati con linee cellulari derivate da feti umani abortiti, fornito dalla Pontificia Accademia della Vita (pp 2-3, 2005):

https://www.pro-memoria.info/wp/wp-content/uploads/Riflessioni-morali-sui-vaccini-preparati-da-cellule-derivate-da-feti-umani-abortiti-PAV-09-06-2005.pdf

 


Il ‘Padrino dei Vaccini’, S. Plotkin, durante il processo 2018 nel video 11 afferma di aver utilizzato almeno 76 feti umani abortiti per realizzare la linea cellulare WI-38 con la quale è stato realizzato il vaccino contro la Rosolia, ammette inoltre di aver condotto sperimentazioni su 13 bambini disabili:

https://www.corvelva.it/approfondimenti/video/il-padrino-dei-vaccini-la-deposizione-di-stanley-plotkin.html


VACCINATION: A CATHOLIC PERSPECTIVE, di Pamela Acker. 

(John-Henry Westen intervista la ricercatrice: https://www.lifesitenews.com/blogs/the-unborn-babies-used-for-vaccine-development-were-alive-at-tissue-extraction)

 

Recentemente è stato pubblicato il libro di PAMELA ACKER ‘Vaccination: A Catholic Perspective’ (pubblicato il 12 dicembre 2020, ma le sue ricerche sono iniziate nel 2019, prima del Covid quindi).

Pamela Acker, biologa, ha lavorato nel gruppo di ricerca sulle HEK293 (per chi non lo sapesse è la linea cellulare utilizzata nella produzione e sperimentazione dei Vaccini Covid attualmente utilizzati in Italia, lo Pfizer Biontech e il Moderna). Tale gruppo di ricerca era finanziato dalla Bill e Melinda Gates Foundation. Dopo 9 mesi, constatando che vi fosse un forte dubbio morale nel collaborare su ricerche che utilizzano linee cellulari provenienti da feti umani abortiti, ha deciso di lasciarlo interrompendo il PhD.

La Acker entra nel merito della questione sulla produzione della HEK 293, la sigla significa HUMAN EMBRYO KIDNEY, cioè rene di un feto umano, 293 sta per ben 293 esperimenti per realizzare la linea cellulare la quale va resa stabile nel tempo. Nello sviluppo di questa linea cellulare era coinvolto il gruppo svedese che aveva lavorato allo sviluppo della WI-38 di Plotkin e i ricercatori hanno ammesso che per lo sviluppo di una linea cellulare servono diversi aborti, uno non basta, ma soprattutto che l’aborto va pianificato poiché per utilizzare le cellule per la ricerca servono determinate condizioni: il feto dovrebbe essere di circa tre mesi, andrebbe fatto un cesareo, il feto dovrebbe essere vivo al momento del prelevamento dei tessuti, per evitare la morte cellulare dei tessuti vi è poco tempo dai 5 minuti al massimo di un’ora dopodiché il feto non è più utilizzabile per estrazione di tessuti utili per realizzare linee cellulari, va evitato l’uso di anestetico per il feto in quanto potrebbe danneggiare i tessuti. La Acker sottolinea nel suo libro che vi sia anche del sadismo nel realizzare questa pratica di vivisezione dei feti umani e la paragona ai sacrifici umani che praticavano gli Aztechi che strappavano il cuore alle vittime. In conclusione: per realizzare una linea cellulare servono diversi aborti (uno non basta), l’aborto va pianificato e non vi è possibilità di utilizzare un aborto spontaneo perché non vengono soddisfatte le condizioni biologiche necessarie per l’utilizzo del feto nella ricerca, dai feti umani abortiti (vivi) vengono prelevati organi che poi vengono venduti alle case farmaceutiche e vengono utilizzati per produrre farmaci

Pamela Acker in questa intervista sostiene che vi sia un problema di incentivazione dell’aborto dietro allo sviluppo delle linee cellulari derivate da feti umani abortiti e che le pratiche per realizzarle siano legate al sadismo e quindi legittimare moralmente l’utilizzo di tali vaccini significa sostanzialmente legittimare che la ricerca scientifica continui a perpetrare un crimine quale quello dell’aborto e della vivisezione secondo la massima ‘il fine giustifica i mezzi’.

 

UNA QUESTIONE IMPORTANTISSIMA CHE LA ACKER AFFRONTA È CHE:

Per realizzare linee cellulari utili per produrre vaccini servono molti aborti e che questi aborti vanno fatti volontariamente (è escluso l’aborto spontaneo) e che vanno prelevati organi del corpo di questi bambini preferibilmente da bambini vivi, è possibile che questi fatti non fossero noti nel 2005 quando venne scritta la Nota della PAV. La ricercatrice sottolinea che quando lì si parla di ‘cooperazione remota passiva al male’ probabilmente chi ha scritto il documento non ha preso in considerazione la realtà di cui oggi siamo venuti a conoscenza. Inoltre in quel documento emerge che l’utilizzo dei vaccini non etici debba essere considerato moralmente lecito solo se la situazione rispetto alla malattia sia estremamente grave, cioè vale l’extrema ratio nel caso vi sia un grave pericolo per la vita.

Grazie a Helga Fiorani del Movimento per la Vita di Treia-Appignano per documenti e traduzione.

Qui puoi trovare la traduzione integrale dell'intervista a Pamela Ackerhttps://www.sabinopaciolla.com/una-collina-su-cui-vale-la-pena-morire-esperta-spiega-come-le-cellule-di-bambini-abortiti-contaminano-i-vaccini

 

Cosa ci dice un Tolkien riletto da Nardi?

 

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Frodo a un certo punto, consapevole dell’immane compito, offre l’Anello a Gandalf. «Ma Gandalf aveva rifiutato rispondendo che, se lui avesse avuto l’Anello, sarebbe diventato peggiore dell’Oscuro Signore perché avrebbe utilizzato il suo desiderio di fare il bene imponendolo agli altri e negando dunque la loro libertà». Così commenta, centrando in pieno, Paolo Nardi nel suo Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli (prefazione della nostra firma Paolo Gulisano, Fede & Cultura, pp. 176, €. 17).

La saggezza di Gandalf il Grigio (poi Bianco) andrebbe ribadita sia ai buonisti politicamente corretti che a quelli nella Chiesa. Ma temo sia troppo tardi: l’ombra di Mordor si è ormai stesa sull’Occidente e gli Schiavi dell’Anello siedono sui più alti scranni. Ma torniamo al saggio di Nardi. Chiarisce molte idee ai fans di Tolkien. Mostra, per esempio, la distanza tra la mitologia nordica, a cui pure Tolkien attingeva, e quella del capolavoro tolkieniano. Nella prima, infatti, l’eroe va in cerca di una morte gloriosa per essere ricordato. Gloria personale, però. Non così i personaggi positivi del Signore degli Anelli. Se devono morire, moriranno, certo, ma non per sé, bensì per agli altri. E, possibilmente, salvando la pelle.

A questo proposito, Nardi fa notare come l’eroe del romanzo non sia Frodo, che infatti finisce col soccombere all’Anello, bensì Sam, grazie al quale, e solo a lui, l’impresa titanica può essere portata a compimento. Anche lui, infatti, quale Portatore, sia pur per poco, dell’Anello, dovrà imbarcarsi verso le Terre Imperiture. Tolkien traduce la parola ofermod non con «orgoglio» ma con «soverchiante superbia», forse memore di qualche gentleman caduto sul fronte della Somme: Tolkien era presente come ufficiale alla carneficina (ventimila morti solo nel primo giorno).

Nardi spezza una lancia a favore della nuova traduzione del romanzo, lavoro che aveva suscitato non poche polemiche. In effetti, Shelob, diventata Aragne, può dare adito a qualche perplessità. Ma nella vecchia traduzione c’era «orchetti» anziché «orchi»: l’idea era quella di trasmettere che il male è anche ridicolo, ma oggettivamente ne diminuiva la malignità. Samvise, Sam, diventa Samplicio. Il primo termine sottolineava la saggezza (wise in inglese vuol dire appunto saggio), il secondo la semplicità. Vedete voi. Mezzuomo diventa Mezzomo (che però per i toscani è quasi un insulto). Pipino diventa, felicemente, Pippin e il Sovrintendente di Gondor passa a Castaldo, più azzeccato. Quando quest’ultimo, Denethor, appresta la pira per sé e suo figlio Faramir, grida impazzito: «Bruceremo come re pagani». La vecchia traduzione rendeva l’originale heathen con «primitivi», dato che Tolkien nella sua opera non parla affatto di cristianesimo.

Ma Nardi fa notare che Tolkien, che era un filologo, aveva inteso «pagani» appositamente, e ne spiega il motivo. Andiamo avanti. Ombromanto, il cavallo di Gandalf, diventa Mantombroso, e vabbè. Però nel film di Jackson è bianco. Boh. Tumulilande diventa Poggitumuli e Grima Vermilinguo diventa Rettilingua, che, sì, ricorda i rettili ma anche qualcosa di retto, diritto. Infine, il c.d. amor cortese del Medioevo come lo immaginavano i romantici. Esso, avverte Tolkien suo figlio Michael, «distoglie, o almeno in passato ha distolto, gli occhi del giovane uomo dalle donne come sono: compagne di naufragio e non stelle guida». Non si potrebbe dir meglio.

“Ciliegi in fiore”, in un libro la storia dell’Opus Dei in Giappone

 

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In occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio del lavoro apostolico dell’Opus Dei in Giappone è stata pubblicata una raccolta di testimonianze di persone, cristiane e non, che dai loro diversi punti di vista offrono un panorama del cristianesimo nella Terra del Sol Levante. “Ciliegi in fiore” è edito da Fede&Cultura ed è acquistabile sul loro sito.

A metà del 1957 il beato Álvaro del Portillo, che allora era segretario generale dell’Opus Dei, ebbe un incontro a Roma con il vescovo di Osaka, monsignor Pablo Yoshigoro Taguchi, durante il quale il prelato giapponese chiese al beato Álvaro di far iniziare il lavoro apostolico dell’Opus Dei in Giappone.

Questa idea piacque molto a san Josemaría, che aveva maturato più volte il desiderio di portare il lavoro dell’Opera in quella terra. Fu così che nel 1958 cominciarono una serie di viaggi di persone dell’Opus Dei verso il Giappone dai quali nacquero anche le prime iniziative in terra giapponese.

La storia del cristianesimo in Giappone è stata travagliata e per molti versi unica. L’autore del libro, José Miguel Cejas, la ripercorre in maniera sintetica nell’introduzione di “Ciliegi in fiore”, che dedica anche al racconto dei primi tempi dell’Opus Dei in Giappone. Nella prima parte l’autore riporta alcune brevi memorie di martiri cristiani risalenti alla fine del 1500. Nella seconda, invece, sono raccolte le testimonianze di giornalisti, musicisti, atleti, educatori, persone dai profili più diversi, cristiani e non cristiani e per buona parte giapponesi.

Tra queste troviamo anche quella di José Luis Múzquiz, uno dei primissimi membri dell’Opus Dei a essere ordinato sacerdote e per il quale è in corso la causa di beatificazione, di altre persone dell’Opus Dei che hanno compiuto viaggi in Giappone per iniziarvi il lavoro apostolico, ma anche di una cooperatrice buddista, uno scultore giapponese che ha contribuito con il suo lavoro alla Sagrada Familia di Barcellona e un poeta di haiku, componimenti poetici tipici giapponesi. L’Opus Dei è presente attualmente in 67 paesi distribuiti su tutti e cinque i continenti.

Offriamo di seguito un estratto del libro, tratta dalla testimonianza di don Fernando Acaso:

“Qualche settimana dopo il nostro arrivo a Osaka conoscemmo il prof. Kunisawa, Preside della facoltà di spagnolo dell’Università Nazionale di Osaka di Studi Stranieri. Era un fervente protestante e ci propose di dare delle lezioni settimanali sul Vangelo – naturalmente fuori programma – nella sua università. “Ma come facciamo? Non sappiamo il giapponese!” “Non importa. Divideremo la classe in due gruppi: quelli che parlano castigliano e quelli che parlano inglese”. La proposta ci entusiasmò: era la prima occasione per parlare di Dio a giovani del paese. E con mia grande meraviglia, pochi giorni dopo, sono tornato a dare lezione a una ventina di alunni senza l’ostacolo della lingua, dato che i miei alunni se la cavavano relativamente bene chi con il castigliano chi con l’inglese.

Quando si fece giorno uscii dalla casa per lavarmi a un pozzo. Fu un’esperienza tanto breve quanto intensa, che mi servì per conoscere la vita tradizionale giapponese e la loro lotta secolare contro le difficoltà materiali. Nel frattempo il Padre ci incoraggiava da Roma: “Sono molto contento di voi – ci diceva in una lettera di maggio – e ho molta voglia che vengano lì, molto presto, altri figli miei e che il Signore susciti vocazioni giapponesi”. Poco dopo ci giunse una lettera di José Antonio Armisén, un sacerdote spagnolo della Navarra che da tre anni esercitava il suo ministero negli Stati Uniti.Feci amicizia con loro e, grazie a Dio, ebbi la gioia di assistere qualche anno dopo alla cerimonia di Battesimo di cinque di loro. Uno di quegli studenti, Hisamoto, mi invitò a passare un weekend a casa dei suoi genitori. Era gente di campagna e viveva in un paese vicino, in una casa di legno che aveva almeno cent’anni. Cenammo seduti intorno al irori (il focolare) che era fissato al suolo. Dal soffitto pendeva il jizaigake, un lungo gancio metallico a cui era agganciata la pentola dalla quale ognuno si serviva. Erano molto affettuosi e dopo il pasto cominciammo a tavola una tertulia che si prolungò fino a notte inoltrata. In giapponese, la parola spagnola tertulia si pronuncia danran e si scrive con due kanji: “allegria” e “intorno al focolare”, cioè riunirsi allegramente attorno al focolare.

Ci diceva che gli avevano chiesto da parte del Padre se era disposto a venire in Giappone: “Ma prima di rispondere – ci diceva – avrei piacere che mi diceste se in Giappone si coltivano ‘cipolline” come quelle di Navarra, voi sapete quanto mi piacciono”. Ci mettemmo a ridere: era uno dei suoi scherzi. Intanto stava già facendo le pratiche per il visto e dopo poche settimane, il 29 luglio 1959, nel giorno più caldo dell’anno, arrivò all’aeroporto di Tokyo. Come me, Antonio non era persona di molte parole. Non aveva bisogno di un ofuro ma di una doccia fredda, perché la città si era trasformata in una immensa sauna”.

NUOVA USCITA! I ciliegi in fiore

 

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Questo libro raccoglie una serie di indimenticabili testimonianze di alcuni membri dell’Opus Dei in occasione del cinquantesimo anniversario dell’arrivo della Prelatura in Giappone: era il 1958 quando monsignor Taguchi, vescovo di Osaka, chiese a Josemaría Escrivá di aprire un Centro dell’Opera nella sua diocesi. Fra le testimonianze raccolte, un bonzo buddista rievoca il terremoto che ha colpito il Giappone; Etsuro Sotoo, scultore della Sagrada Familia di Barcellona, racconta la storia della sua conversione; un noto poeta haiku parla della cultura giapponese. Giornalisti, musicisti, atleti, educatori, persone dai profili più diversi – cristiani e non cristiani – offrono una visione affascinante del Giappone, dell'avventura della fede, degli inizi del cristianesimo e dello sviluppo dell'Opus Dei nella Terra del Sol Levante.

È lecito vaccinarsi contro il coronavirus?


Questo è il video che Youtube ha cancellato perchè "fa disinformazione in ambito medico" sul coronavirus! Il timore di ammalarsi cresce grazie al martellamento dei media, ma la domanda se sia lecito vaccinarsi usando cellule derivanti dall'uccisione di bambini non può essere messa a tacere. Qualche punto fermo sulla questione.

Regola e preghiera. Gli eremiti di Grimlaico


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All’inizio fu sant’Antonio Abate, morto ultracentenario nel 356, il quale, come narra il suo biografo Atanasio, "trovata oltre il fiume una fortezza deserta e piena di serpenti a causa del tempo trascorso, lì si stabilì e si mise ad abitare in essa. I serpenti subito si ritirarono, come se qualcuno si fosse messo a cacciarli; egli, chiusa l’entrata e messi da parte pani per sei mesi, avendo acqua all’interno, se ne restava da solo, come sprofondato nei penetrali di un santuario, all’interno del romitaggio, senza uscire e senza vedere nessuno di quelli che venivano. Dunque per molto tempo continuò a praticare così l’ascesi, ricevendo i pani solo due volte all’anno dal tetto". 

Antonio visse così per vent’anni, facendo per primo l’esperienza estrema della reclusione volontaria: altri lo hanno seguito, in Oriente come in Occidente; fra loro, Grimlaico, autore del volume curato da padre Michele Di Monte, Senza che si oda la loro voce. Regola per eremiti. Di lui abbiamo scarse notizie: probabilmente era originario della zona di Reims, in Francia, e visse fra IX e X secolo, trascorrendo una parte cospicua della propria esistenza rinchiuso in una cella accanto a un monastero di cui non è possibile l’identificazione.

Il testo di Grimlaico si compone di 69 capitoli, nei quali vengono tratteggiate le caratteristiche della vita eremitica, a partire dalla vocazione fino alla sua durata. Numerosi i riferimenti a fonti patristiche e monastiche. In particolare, l’autore mostra una profonda ammirazione per la Regola di San Benedetto che, annota padre Di Monte, "costituisce l’ossatura attorno a cui egli compone la sua regola per reclusi". Ma soprattutto a Grimlaico sta a cuore la radicalità della scelta eremitica: "I precetti che vengono dati ai monaci e a coloro che rinunciano a questo mondo – egli scrive – sono molto più alti di quelli dati ai fedeli che conducono una vita normale nel mondo".

Preghiera, lettura e lavoro saranno i cardini dell’esistenza dell’autentico servo di Dio che ha scelto la solitudine, "perché pregando siamo purificati, leggendo veniamo istruiti, e con la fatica del lavoro stanchiamo il corpo, in modo che non diventi orgoglioso". Come colui che ha messo mano all’aratro non deve volgersi indietro (Lc 9, 62), così al solitario è richiesto di non venire meno all’impegno preso: "Dopotutto – conclude Grimlaico – non è l’inizio di un buon lavoro che cercano i solitari, ma la fine, perché è su come si finisce che ognuno di noi sarà giudicato". 

Maurizio Schoepflin



Leggere insieme Il Signore degli Anelli: la recensione di Testi

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Premessa

L’indice del volume coincide praticamente con l’indice del Signore degli Anelli perché in questo ottimo libro l’autore commenta brevemente capitolo per capitolo (Prologo e appendici incluse) il capolavoro di J.R.R. Tolkien. Questa semplice idea è però estremamente efficace perché aiuterà chi ha letto il Signore degli Anelli almeno una volta a capirne meglio tutta la profondità.

Pregi del volume

Sul piano formale il libro è scritto in un linguaggio chiaro e non specialistico, e questo lo rende particolarmente piacevole alla lettura. Questa accessibilità però non va scambiata per superficialità. Nardi infatti dimostra di aver ben presenti tutti i testi fondamentali di critica tolkieniana, e nei singoli capitoli egli cita gli autori proprio dove le loro tesi riescono a far meglio apprezzare il contenuto del brano commentato.
Altro merito non banale del libro è che l’autore, peraltro cattolico così come lo è la casa editrice, sta ben lontano dalle letture allegorizzanti e confessionaliste che, volendo vedere a ogni riga riferimenti cristiani espliciti, non colgono la profondità e complessità del testo tolkieniano.
Venendo ai contenuti, segnalo qui solo alcuni punti particolarmente significativi, che mostrano il valore del libro.
– la canzone The Road goes ever on viene esaminata nelle sue quattro versioni disseminate nel vari capitoli del SDA, e se ne mettono in luce le principali, seppur sottili, differenze
– si sottolinea come la nostalgia elfica per un passato, effettivamente più luminoso, sia il loro enorme limite, con buona pace delle letture “Tradizionaliste” (con la “T” rigorosamente maiuscola) tipiche di un certo approccio italiano che appare sempre più inadeguato (p. 30; cfr. p.45).
– nell’episodio della “Vecchia Foresta” si dice che gli Hobbit, ben lungi da essere dei convinti ecologisti, hanno in passato bruciato diversi alberi e questo spiega (come notò Verlyn Flieger) la reazione delle Vecchia Foresta all’arrivo di Frodo & Co. (p. 35)
– Nardi nota come Tolkien volutamente non dice esplicitamente cosa ha spinto Frodo, durante il Consiglio di Elrond, a farsi avanti per portar l’Anello, in modo da lasciare aperte diverse possibilità interpretative: è stato mosso dall’Anello, da Eru o dall’inconscio? (p. 55)
– Ne “Il Grande Fiume” si cita il discorso di Legolas sullo scorrere del tempo per gli elfi, uno dei pochi ma fondamentali punti nel Signore degli Anelli in cui tematizza esplicitamente il conflitto tra morte e immortalità (p. 69)
– molto correttamente Nardi descrive Barbalbero come un vero e proprio filologo in senso tolkieniano, dato che per lui storia e nomi di fatto coincidono (p.83)
– quando parla dei Cavalieri di Rohan (sia al Fosso di Helm che nella loro cavalcata a Gondor) Nardi mette in luce come questi incarnino lo spirito nordico, che per Tolkien ha anche una aspetto molto negativo radicato nella idea di “soverchiante orgoglio” (ofermod: p.91)
– Nel “Viaggio al crocevia” si dice come l’incontro con le rovine serva per dare alla storia quel senso di profondità così caro a Tolkien (p.113)
– Nell’episodio della distruzione dell’Anello l’autore non manca di notare come Frodo “non-sceglie di fare” ciò che doveva, il che è ben diverso del “scegliere di non–fare”: lo hobbit così rinuncia alla scelta per farsi soggiogare dall’Anello, che infatti è incompatibile col libero arbitrio, così fondamentale per il cattolicesimo e per Tolkien medesimo (p. 150 cfr. p. 137)
– infine, nei “Grigi Approdi” si sottolinea che la tragica figura di Frodo è da considerarsi un vero e proprio reduce di guerra disadatto alla Contea, che infatti ammette che è stata salvata “not for me” (che Fatica traduce con “non per me”, correggendo la fuorviante precedente traduzione che riportava “non per merito mio”: p. 166).

Limiti

Il libro nasce per essere semplice e accessibile, e quindi non sarebbe corretto indicare tutto quello che qui non si trova per capire il Signore degli Anelli. Mi permetto qui di segnalare solo un paio di punti che potrebbero essere migliorati:
– quando si parla dell’Anello, e si nega (giustamente) che Tolkien non lo considerava un’allegoria della bomba atomica, Nardi afferma che «se anche l’Anello fosse la bomba atomica perché rappresenterebbe l’arma definitiva […] il romanzo ci metterebbe comunque in guardia dall’impiegarla a fini bellici, perché non può esistere un buon motivo per farlo» (p. 25). Dalla frase sembra supporre che la bomba atomica (che si ipotizza nel brano identica all’anello) si potrebbe usare per fini non bellici, qualora ci siano buoni motivi. Ebbene, non è così: Signore degli Anelli insegna proprio che in nessun caso si può usare l’Anello, e che l’uso è sempre in sé negativo, da cui segue che l’unica cosa da fare è distruggerlo il prima possibile.
– quando Nardi descrive lo scontro tra Uruk-hai di Saruman e orchi di Mordor, descrive Ugluk come un «bestione privo di cervello che vuole solo comandare». In realtà, Ugluk è colui che per cieco senso del dovere obbedisce rigorosamente agli ordini, e quindi lo scontro tra schieramenti esemplifica un più profondo conflitto tra dovere e interesse personale (non a caso Ugluk è il personaggio preferito da Tom Shippey).
– infine, mi permetto di indicare come mancanza il non aver segnalato nel capitolo “Molti incontri” che qui Tolkien offre una dettagliata descrizione di quello che per lui è un Faërian Drama: questo accade a Frodo quando viene praticamente immerso e sommerso quasi fisicamente dal canto elfico nel salone del fuoco.

Conclusione

Leggere insieme ‘Il Signore degli Anelli – che verrà Il volume sarà presentato nel prossimo TolkienLab, mercoledì 24 Febbraio 2021, ore 20.45 alla presenza dell’autore – è una piccola perla nella bibliografia italiana su Tolkien, che mi sento di consigliare a tutti coloro che hanno letto SDA da una a venti volte e più: chi sta nella prima fascia potrà così iniziare a vederne meglio la ricchezza, chi sta nella seconda (e magari ha fatto qualche lettura critica) leggerà il testo di Nardi con avidità perché gli sembrerà di rivivere in sole 174 pagine la grandezza del capolavoro di J.R.R. Tolkien.

Claudio Testi









“Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli”: alla riscoperta del capolavoro di Tolkien

 

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Per chi ha avuto la fortuna di avventurarsi con gusto tra le pagine de Il Signore degli Anelli è impossibile non condividere l’opinione espressa da C. S. Lewis all’epoca della pubblicazione del libro: «È troppo originale, troppo ricco perché lo si possa giudicare a una prima lettura. Ma sappiamo che ci ha regalato qualcosa: non siamo più le stesse persone».

Come tutti i capolavori della letteratura, il best-seller tolkieniano lascia nell’animo di chi legge il ricordo di un’esperienza meravigliosa. È come se la dimensione mitica e fantastica che caratterizza il massiccio volume permettesse di comprendere meglio, a un’adeguata distanza, quello straordinario dono che è la vita, con il suo quotidiano di infinite contraddizioni (ecco perché il professore di Oxford fu tutto meno che un fautore dell’ “escapismo”, cioè di una letteratura concepita quale fuga mundi o sterile consolazione). Ha perciò ragione Tom Shippey quando, in J.R.R. Tolkien autore del secolo, scrive che con la sua opera lo scrittore inglese stava facendo qualcosa di molto comune fra i romanzieri del Novecento: nel ruolo di sub-creatore, racconta di mondi e creature che non esistono, non per ignorare la realtà, ma per guardarla in un modo nuovo. Del resto se Il Signore degli Anelli continua a essere letto e apprezzato in tutto il mondo – ritornato in auge di recente anche grazie alla fortunata trilogia cinematografica di Peter Jackson – è perché affronta temi universali quali il potere, l’amore, l’ignoto, la vita e la morte, questioni radicali dell’essere umano, destinate a non passare mai di moda.

Nel corso degli anni sono state avanzate svariate interpretazioni del capolavoro di Tolkien, non di rado contraddittorie, frutto di letture parziali o ideologiche, tanto che c’è pure chi è arrivato all’estremo di denunciare l’opera come un manifesto maschilista, fascista e razzista. D’altro canto, troppo spesso il professore di Oxford è stato trattato dagli estimatori alla stregua di un santino, ridotto, nel peggiore dei casi, a un serbatoio di slogan e frasi d’effetto a buon mercato. In Italia, poi, il travisamento a scopi politici pare una regola, e la fresca polemica a proposito della traduzione firmata da Ottavio Fatica non fa che confermare come una lettura de Il Signore degli Anelli sgombra dai pregiudizi, che tenga solamente conto della visione di Tolkien, sia ancora purtroppo molto difficile.   

È proprio dal desiderio di percorrere questa strada tortuosa, di ridare dignità a «un romanzo-mondo che contiene al suo interno di tutto (narrativa, poesia, filosofia, etica) e parla a chiunque, da destra a sinistra, dagli atei ai credenti, dai pagani ai cristiani, dai modernisti agli antimodernisti», che nasce Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli di Paolo Nardi, traduzione cartacea di una serie di video a commento del libro già apparsa questa primavera su YouTube.

Basandosi su una bibliografia critica vasta e variegata, Nardi riesce nella complicata operazione di portare in primo piano il romanzo, offrendo di esso un’interpretazione convincente, capitolo dopo capitolo, in grado di mostrare i limiti di certe esegesi miopi e partigiane. Pur da cattolico, l’autore resiste inoltre alla tentazione di vedere in ogni particolare del libro tracce della fede di Tolkien; allo stesso tempo, mentre critica chi derubrica Il Signore degli Anelli a un racconto per ragazzi o a un sottoprodotto della cultura pop, Nardi svela la grandissima profondità dell’opera, mostrando come sia attraversata da interminabili contraddizioni e ambiguità, frutto di una scrittura che è qualcosa di molto più complesso del semplice stilare «manifesti e utopie da ideologo nostalgico del passato o sussidi per il catechismo».

Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli – con prefazione di Paolo Gulisano – si dimostra dunque una guida preziosissima, utile sia per i neofiti della Terra di Mezzo che per i lettori più smaliziati. A questo punto c’è solo da sperare che Paolo Nardi possa regalarci altri libri così, godibili e intelligenti, magari per analizzare ancora più nel dettaglio il vasto e complesso universo letterario nato dalla penna di quel genio che fu J. R. R. Tolkien.  

Luca Fumagalli


C’è un senso alla storia?

 

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C’è un senso alla storia? I fatti hanno un senso e rispondono a un disegno provvidenziale? Se molti pensano che tutto sia frutto del caso o che la storia sia il grande palcoscenico sul quale si realizza l’opera dell’uomo, il cristiano è invece invitato a pensare diversamente. Infatti, tutto quello che accade è la realizzazione di un progetto divino, al cui centro sta l’avvenimento più grande che l'umanità conosca: l’Incarnazione del Verbo, la venuta del Figlio di Dio, il Cristo.

Da "Il senso cristiano della storia" di Dom Prosper Guéranger



Lo Spirito consolatore

di Giovanni Zenone
Ho cominciato questo libro - Lo Spirito consolatore - e dopo 16 pagine ne ho interrotta la lettura: mi sapeva troppo di teologia! Poiché, tuttavia, lasciare un libro incompiuto nella lettura è una sconfitta che non mi piace subire (ricordo ancora con amarezza i due libri che ho lasciato incompiuti: Uno, nessuno, centomila di Luigi Pirandello - cominciato e lasciato quando avevo 18 anni - e Orcynus orca di Stefano d'Arrigo - cominciato e abbandonato poco oltre i 20 anni), grazie alla spinta di un amico che l'aveva letto mi sono deciso e l'ho ripreso per finirlo.

Ho usato la mia tecnica consueta per i testi pesanti: andare avanti, non cercare di capire troppo, lasciare che il flusso delle parole scritte entri in me attraverso gli occhi senza pretendere l'adesione piena della mente, della memoria, del gusto. Solo immergersi nel flusso. La tecnica ha dato il suo risultato: in pochi giorni ho finito il libro - non grosso - e ne ho tratto anche un sia pur non immenso profitto.

Ho messo a fuoco l'origine e le metamorfosi storiche dell'icona della Santissima Trinità di Rublëv. Partendo da immagini analoghe dal 4° secolo, per poi proseguire per mille anni, il significato originario della figurazione della visita dei tre angeli a Mamre nella tenda di Abramo - quando viene annunciata e promessa la nascita di Isacco - si arriva, attraverso molti altri, al santo iconografo Rublëv che seppe fare sua una tradizione millenaria, depurandola ed elevandola a vette teologiche e contemplative che sono tuttora fonte di preghiera e e di ispirazione. Questa bellissima icona parla della dinamica, dell'amore trinitario che ha come fine l'effusione dello Spirito Santo per rendere l'uomo davvero "pneumatico", colmo di Spirito. Questo mi spinge con forza ad andare oltre e a leggere la Vita di san Serafino di Sarov per il quale scopo della vita è l'acquisizione allo Spirito Santo.

Il linguaggio costituisce una caratteristica dell’uomo


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Il linguaggio umano è un mistero che tuttora la scienza non riesce a spiegare in maniera esaustiva. Il linguaggio verbo-vocale, cioè quello emesso con la voce e che si esprime attraverso parole e frasi, è ciò che rende l’uomo unico e nettamente diverso dagli animali. Umano solo umano, dunque, sta a significare che proprio il linguaggio costituisce una caratteristica dell’uomo che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi.

Da "Umano solo umano" di Francesco Avanzini.

Il «Commento alla Divina Liturgia» di Nikolaos Cabasilas e la fase post lockdown

 

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Presento di seguito il Commento alla Divina Liturgia del Padre della Chiesa greco Nikolaos Cabasilas (1320/22-1391/97), tradotto in italiano da M.M.E. Pedrone e M. di Monte (Monasterium, 2019). Come si desume dal titolo, si tratta di un testo di liturgia, materia che risulta, soprattutto oggi, quanto mai bisognosa di divenire oggetto di seria riflessione e catechesi per noi cristiani. Lo scollamento, inaugurato secoli fa, tra Parola di Dio e sacramento/liturgia, ha prodotto una, anche molto latente, radicalizzazione della comprensione di un termine a prescindere dall’altro e, come conseguenza, una scarsa conoscenza riguardo, non solo alla Parola di Dio, ma anche alla materia liturgico-sacramentale. Scindere ciò che costituisce un’unità non riguarda solo la Parola e il sacramento ma anche l’amore a Dio e l’amore al prossimo, il dogma e la pastorale, la verità e la misericordia, ecc. Gli esiti di ciò, sul piano spirituale ed esistentivo, sono incalcolabili. L’uomo che frammenta è un uomo frammentato: da ciò si comprendono i continui richiami di papa Francesco, volti a una ripresa dei contenuti dell’autocoscienza cristiana che fissino una visione d’insieme: l’appartenenza a una storia, a un popolo, a un creato, e primariamente a un Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo e non ad un’astratta deità.

Dato che, sempre papa Francesco, in questa fase di ripartenza dopo il lockdown, ha messo in guardia dalla tentazione di voler tornare a “come era prima” – economia dello scarto, clericalismo, ecc. – credo sia opportuno guardare al “come era prima” della Tradizione dei Santi Padri. Dato poi che per il magistero della Chiesa cattolica la tradizione cristiana orientale costituisce un polmone di quella occidentale, onde evitare pericolose crisi respiratorie, sarà bene respirare sempre anche con quel polmone.

Cabasilas è un eminente rappresentante del nostro polmone orientale. Il Commento alla Divina Liturgia è considerato da alcuni l’apice del pensiero liturgico bizantino e opera di grande valore ecumenico, se si pensa che esso ha avuto una notevole diffusione non solo in ambito greco, ma anche russo e latino (il Concilio di Trento invocò la sua autorità). Composto da 53 capitoli, propone una spiegazione, passo passo, della Liturgia del Crisostomo in cui l’Autore espone la sua teologia sulla Liturgia, sia in generale che per quanto concerne temi specifici. 

Cabasilas mostra come la Liturgia sia – in linea con Palamas e la prospettiva occidentale – la ripresentazione di tutta l’opera salvifica di Cristo, della Parola di Dio che appare, si fa carne e la santifica. La Liturgia rappresenta quindi l’inserimento dell’uomo nella storia della salvezza – come Cabasilas mostra nelle sue spiegazioni, ad esempio, sulle antifone – la quale è la storia redenta e ciò in cui è significata la Chiesa: da ciò la formulazione del principio teologico secondo cui tra Chiesa ed eucaristia non v’è un’analogia di somiglianza ma un’identità di realtà, quella del corpo di Cristo. Cabasilas identifica, a tal proposito, l’efficacia dei vari momenti della Liturgia, massimamente quello della consacrazione delle specie, che consiste nel purificare e santificare l’uomo, e che portano questi a contemplare (e non a riflettere intellettualisticamente) l’opera cosmica (e non di incontro privato io-Tu) redentrice di Cristo. Dalla santificazione nasce – è questo un aspetto molto sottolineato da Cabasilas – l’impegno e la responsabilità del cristiano che riguarda l’oblatività della vita e che si concretizza anche nella buona disposizione e nella preparazione alla Liturgia.

Entrando più nel dettaglio della Liturgia, essa, fino a prima della preghiera eucaristica, risulta figurativa, di preparazione a ciò che segue. Le specie eucaristiche che vengono offerte simboleggiano la vita, in tal senso l’uomo offre le primizie della vita a Dio che Questi trasformerà nella vera vita, il corpo di Cristo. E tuttavia quest’offerta è già simbolo dell’offerta di Cristo nella prima tappa della sua vita, così come la presentazione del vangelo simboleggia il manifestarsi di Cristo alle folle e la processione dalla protesi all’altare il maltrattamento di Gesù. Tutto ciò è manifestato, però, quale Liturgia celeste, come espresso dal Trisagion. La preghiera eucaristica e l’epiclesi – il centro della Liturgia – rendono Cristo presente, mentre dall’anamnesi fino al termine è simboleggiato l’effetto della redenzione, ossia l’invio dello Spirito Santo alla Chiesa, è questo il significato dell’acqua calda (acqua e fuoco sono immagini dello Spirito) nel calice. 

In tale quadro generale, emergono poi aspetti specifici in cui Cabasilas apporta il suo originale contributo.

Il sacrificio. Cabasilas è stato il primo a commentare, dal punto di vista dogmatico, il fatto che la Liturgia è un vero sacrificio, ripresentazione dell’unico sacrificio del Golgota, che avviene nell’atto della consacrazione. Teologi come Ioannis Zizioulas, a dire il vero, ravvisano in tale lettura i primi segni del formarsi di una comprensione della Liturgia come ripresentazione di un evento passato, la quale attenua l’orientamento escatologico del simbolismo liturgico originale, un primo sintomo di quel sentire teologico medievale con le sue tendenze “cosificanti” e “individualizzanti”. 

Epiclesi. In polemica con i latini, Cabasilas mostra, mettendo in parallelo il «prendete e mangiate» di Gesù con il «crescete e moltiplicatevi» della Genesi, come la consacrazione avvenga nell’epiclesi, riconoscendo tuttavia che le parole di istituzione del Signore sono necessarie per l’efficacia di essa. È così fornita un’attestazione di applicazione di una cristologia pneumatologica quale, di per sé, deve essere.

Partecipazione dei giusti non ancora santi. Cabasilas teorizza – non sulla base dei Padri ma della sua lettura della Scrittura e del principio secondo cui la santificazione ha come sede l’anima e non il corpo (pur raggiungendo, da essa, il corpo) – la comunione ai sacri misteri dei defunti non ancora santi. Da ciò si ha che partecipare alla Divina Liturgia, e il ricordo di questi defunti, è comunione con essi; che il luogo di tale ricordo, e la luce che illumina esso, è, quindi, la storia di salvezza di un popolo e della creazione tutta e non un sentimento di un individuo; che ogni Liturgia è per/con tutti i defunti. 

Partecipazione dei Santi. Il ricordo dei Santi interviene più volte ed è esso stesso motivo del rendimento di grazie che è la Liturgia. «I loro beni sono i nostri», perciò «ringraziamo il Donatore» e «anch’essi ricevono i doni» che è «oblazione fatta per amore loro». Essi non sono un contorno accessorio (il culto verso di loro non può essere slegato dal significato comunionale, di esso e dell’Eucaristia), ma questi sono compresi nella comunione tra loro, nella comunione con i fedeli in quanto Chiesa e nel quadro eucaristico, ossia della storia della redenzione, e non devozionalistico/individualistico. 

Da questi rapidi rilievi si constata la profondità teologica della Liturgia e l’urgenza di una quanto più precisa comprensione di questa per il cristiano. Altresì, si evidenzia come occorra una seria, e sempre critica, riconsiderazione del dato della Tradizione, nonché un approfondimento di quest’ultima, tale che sia rivelata più chiaramente la costituzione trinitaria ed ecclesiale dell’essere del cristiano e del creato. Torniamo alle celebrazioni, “non come prima”: superando – nella sempre più piena ricezione del dato della Tradizione, soprattutto patristica, e quindi, di fatto, del magistero conciliare – ogni concezione cristomonista della fede, devozionalista della Liturgia e individualista dell’uomo, smascherata ogni qualvolta quest’ultimo si rivela dittatore e schiavo e non figlio libero e fratello.

Dario Chiapetti

«Asceti contemporanei del monte Athos» dell’archimandrita Cherubim. Note sul cammino ascetico della Chiesa in uscita

 

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Esce per il pubblico italiano il classico Asceti contemporanei del monte Athos. Ascesi e purificazione sulla via del Paradiso (introduzione e note a cura di padre Michele Di Monte, Edizioni Monasterium, 2019, 193 pp., 20 euro; titolo originale: Contemporary Ascetics of Mount Athos, St. Herman of Alaska Brotherhood, 1992) dell’archimandrita Cherubim, al secolo Giorgio Karembelas (1920-1979), monaco del monte Athos stabilitosi a soli due anni dalla tonsura, a causa di una malattia, ad Atene, dove fondò il monastero del Santo Paraclito in Oropos con una regola athonita.

Il testo riporta le storie e i cammini spirituali degli anziani Joachim della skitidi sant’Anna (confratello dello stesso Cherubim), Atanasio di Grigoriou e Callinico l’esicasata ma anche, connesse a queste, di Daniele di Katounakia, Filarete di Constamonitou e Gerasimo Menagias. Sono queste le figure di grandi asceti vissuti nella prima metà del XX secolo. 

In primo luogo, dai racconti si riceve un quadro vivo e preciso di questa secolare realtà (sorta nel IX secolo) che suscita tutt’oggi l’interesse e la curiosità di molti pellegrini e turisti da tutto il mondo: il monte Athos (Aghion Oros). 

Repubblica monastica autonoma, penisola che si situa, a sua volta, sulla penisola calcidica (Grecia), l’Athos è soggetto alla giurisdizione ecclesiastica del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, conta circa 1.500 abitanti (monaci ortodossi) distribuiti in 20 monasteri, 12 skiti (comunità di monaci sorte attorno a delle chiese) e circa 250 celle (per l’eremitaggio). Ogni monastero, oltre al proprio abate (igumeno) elegge il proprio rappresentante per la Sacra Comunità, l’organo che esercita, nella città principale (Karyes), il potere legislativo su tutto il monte.

L’Athos è conosciuto in gran parte per la bellezza del suo paesaggio, degli elementi naturali, delle imponenti e suggestive costruzioni medioevali, della qualità artistica degli affreschi che impreziosiscono gli ambienti di queste ultime e gli oggetti religiosi in esse custoditi. Ma sopra tutto ciò, è la vita che sull’Athos si svolge che vale la pena scoprire e che il testo intende far conoscere.

In tutti i racconti dell’Autore emerge con nitidezza l’anelito di ogni protagonista ad una vita compiuta e realizzata che solo in una scelta radicale di cammino ascetico, come quella che propone l’Athos, ha trovato terreno per il suo attuarsi. Senza ripercorrere qui le vite dei monaci presentate da Cherubim mi soffermo brevemente – allacciandomi anche al cammino attuale della Chiesa cattolica – sulla parola chiave per leggere il testo e le figure presentate dal testo: ascetismo.

Con tale termine si intende comunemente il complesso di pratiche con le quali l’uomo, in virtù della grazia di Dio a lui da Questi donata, la accoglie e la fa propria. Ebbene, oggi giorno, soprattutto da parte cattolica, si sta acquisendo rinnovata consapevolezza della necessità per la Chiesa – per essere se stessa – di farsi prossima soprattutto con i più bisognosi, instaurare ponti soprattutto con chi si presenta come “lontano”, ecc. Si sta recuperando la nota di gioia, di propositività e di positività che caratterizzano il volto e l’atteggiamento del cristiano. Il magistero di papa Francesco è maestro in questo. Ma c’è un altro aspetto del vangelo, fortemente richiamato, in pieno stile gesuitico, dallo stesso pontefice, che non va perso di vista: quello, appunto, dell’ascesi, e, a questo connesso, della rinuncia, della penitenza. Ciò che si evince dalle vite di questi Anziani è che una chiesa “in uscita”, cioè che comunica, contagia, illumina, ecc., non è “Adamo”, l’uomo vecchio, che, invece di essere Adamo in sagrestia, è Adamo che sta fuori dalla sagrestia, ma l’uomo nuovo che, in quanto rinnovato, morto e risorto nella morte e risurrezione di Cristo, esce, esiste come annunciatore – direi annuncio – della buona notizia. Questo non vuol dire – si badi bene – che prima si diviene uomini nuovi e poi si esce incontro agli altri. Uscire può rappresentare un’ottima occasione per rinascere, anzi, per morire e rinascere (anche se il luogo fontale della morte e rinascita rimane quello ecclesiale-sacramentale, e quindi per un cristiano adulto, l’eucaristia). Ora, se l’ascesi è – come scrive Di Monte nell’introduzione – la scala di Giacobbe (cfr. Gen 28,12-13), il far nascere l’uomo interiore sulla morte dell’uomo esteriore (cfr. 2Cor 4,18) o – in altri termini – l’entrare in comunione con l’essere di Dio, “uscire” (non innanzitutto in senso fisico) è vero uscire se è cammino ascetico, e viceversa, il vero cammino ascetico è questo “uscire” dal modo d’esistere d’Adamo, autoaffermativo, autocentrato, egoista, verso il modo d’essere di Dio, comunionale. Un’autentica acquisizione del modo d’esistere di Dio è quindi un andare incontro agli altri e ciò non può che essere gioia e dolore, gioia per l’uomo nuovo che sta nascendo, che inizia a gustare in sé l’essere esodale-comunionale di Dio e dolore per l’uomo vecchio che viene portato così alla morte.

Ora, ciò che mette in evidenza il presente testo è che l’ascetismo di questi Anziani – una forma di ascetismo duro, da comprendere nelle sue radici storiche, caratterizzato da incredibili privazioni, abnegazioni e isolamenti che possono urtare la nostra sensibilità non solo di uomini ma anche di fedeli – è ciò che sta alla base del cristiano gioioso.

Come emerge dai racconti tale ascetismo è risposta d’amore all’invito da parte di Dio di accogliere il suo essere, risposta che non può che far andare l’uomo contro la propria natura umana che, in quanto segnata dal peccato, si oppone al modo d’esistere comunionale come è quello divino. Il cammino ascetico comporta dunque il passaggio – che, se avviene realmente, non può non essere indolore – «dallo stato – prosegue Di Monte – “contro natura” allo stato “secondo natura”». Come secondo aspetto, e diretta conseguenza di ciò, il cammino ascetico – e le vite di Joachim, Atanasio e Callinico lo attestano vivissimamente – porta la persona a fiorire nella carità verso gli uomini e la creazione tutta.

La lezione di questi Anziani è chiara: l’ascetismo non consiste nel chiudersi alla vita ma al modo adamitico di viverla, non consiste nell’autopunirsi per i peccati prima che ci pensi Dio ma muovere la propria natura dal modo d’esistere di Adamo a quello di Dio offertoci in Cristo. E così ogni fedele è invitato a riscoprire il significato evangelico dell’ascetismo e il suo valore per una vita veramente gioiosa, veramente in uscita.

Dario Chiapetti


Ci siamo spostati dopo 13 anni

Cari amici, era il 2 novembre 2009 quando prendevamo in mano questo blog e gli davamo una nuova vita, come "voce culturale ufficiale&q...