Cosa ci dice un Tolkien riletto da Nardi?

 

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Frodo a un certo punto, consapevole dell’immane compito, offre l’Anello a Gandalf. «Ma Gandalf aveva rifiutato rispondendo che, se lui avesse avuto l’Anello, sarebbe diventato peggiore dell’Oscuro Signore perché avrebbe utilizzato il suo desiderio di fare il bene imponendolo agli altri e negando dunque la loro libertà». Così commenta, centrando in pieno, Paolo Nardi nel suo Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli (prefazione della nostra firma Paolo Gulisano, Fede & Cultura, pp. 176, €. 17).

La saggezza di Gandalf il Grigio (poi Bianco) andrebbe ribadita sia ai buonisti politicamente corretti che a quelli nella Chiesa. Ma temo sia troppo tardi: l’ombra di Mordor si è ormai stesa sull’Occidente e gli Schiavi dell’Anello siedono sui più alti scranni. Ma torniamo al saggio di Nardi. Chiarisce molte idee ai fans di Tolkien. Mostra, per esempio, la distanza tra la mitologia nordica, a cui pure Tolkien attingeva, e quella del capolavoro tolkieniano. Nella prima, infatti, l’eroe va in cerca di una morte gloriosa per essere ricordato. Gloria personale, però. Non così i personaggi positivi del Signore degli Anelli. Se devono morire, moriranno, certo, ma non per sé, bensì per agli altri. E, possibilmente, salvando la pelle.

A questo proposito, Nardi fa notare come l’eroe del romanzo non sia Frodo, che infatti finisce col soccombere all’Anello, bensì Sam, grazie al quale, e solo a lui, l’impresa titanica può essere portata a compimento. Anche lui, infatti, quale Portatore, sia pur per poco, dell’Anello, dovrà imbarcarsi verso le Terre Imperiture. Tolkien traduce la parola ofermod non con «orgoglio» ma con «soverchiante superbia», forse memore di qualche gentleman caduto sul fronte della Somme: Tolkien era presente come ufficiale alla carneficina (ventimila morti solo nel primo giorno).

Nardi spezza una lancia a favore della nuova traduzione del romanzo, lavoro che aveva suscitato non poche polemiche. In effetti, Shelob, diventata Aragne, può dare adito a qualche perplessità. Ma nella vecchia traduzione c’era «orchetti» anziché «orchi»: l’idea era quella di trasmettere che il male è anche ridicolo, ma oggettivamente ne diminuiva la malignità. Samvise, Sam, diventa Samplicio. Il primo termine sottolineava la saggezza (wise in inglese vuol dire appunto saggio), il secondo la semplicità. Vedete voi. Mezzuomo diventa Mezzomo (che però per i toscani è quasi un insulto). Pipino diventa, felicemente, Pippin e il Sovrintendente di Gondor passa a Castaldo, più azzeccato. Quando quest’ultimo, Denethor, appresta la pira per sé e suo figlio Faramir, grida impazzito: «Bruceremo come re pagani». La vecchia traduzione rendeva l’originale heathen con «primitivi», dato che Tolkien nella sua opera non parla affatto di cristianesimo.

Ma Nardi fa notare che Tolkien, che era un filologo, aveva inteso «pagani» appositamente, e ne spiega il motivo. Andiamo avanti. Ombromanto, il cavallo di Gandalf, diventa Mantombroso, e vabbè. Però nel film di Jackson è bianco. Boh. Tumulilande diventa Poggitumuli e Grima Vermilinguo diventa Rettilingua, che, sì, ricorda i rettili ma anche qualcosa di retto, diritto. Infine, il c.d. amor cortese del Medioevo come lo immaginavano i romantici. Esso, avverte Tolkien suo figlio Michael, «distoglie, o almeno in passato ha distolto, gli occhi del giovane uomo dalle donne come sono: compagne di naufragio e non stelle guida». Non si potrebbe dir meglio.

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