La confessione e il discernimento vocazionale

XXIX CORSO SUL FORO INTERNO
Roma, Palazzo della Cancelleria 5 marzo 2018 - ore 15.30

LECTIO MAGISTRALIS
Card. Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore


Carissimi Amici,
In questi mesi che ci separano dalla celebrazione del Sinodo dei Vescovi sul tema dei giovani voluto da Santo Padre Francesco, mi è parso particolarmente congruo, in questo 29° Corso sul Foro interno, riflettere sul rapporto tra “Confessione sacramentale e discernimento vocazionale”. Tale rapporto, se riguarda oggettivamente tutti i fedeli, ha
certamente una particolare rilevanza nell’età delle scelte fondamentali, che danno orientamento all’intera esistenza e che sostengono - a mo’ di “opzione fondamentale” - tutte le altre scelte che ciascuno è chiamato a compiere.

Per svolgere il tema partirò da due “postulati”:

Il primo è la constatazione che il giovane è una persona che, come tale, ha la medesima struttura antropologica di ogni altra persona e quindi i medesimi bisogni molteplici ed universali: bellezza, giustizia, libertà, verità, amore etc. Bisogni che, proprio perché universali, divengono anche valori, ai quali continuamente tendere per realizzare quella che Aristotele chiamava la “contemplazione delle essenze”, che San Tommaso chiamava “la Beatitudine” e che noi chiamiamo “felicità”, con tutta la
prudenza necessaria nell’utilizzo di tale categoria nel linguaggio contemporaneo soggettivizzato.

Il secondo presupposto è dato dal riconoscimento della “apertura del cuore” di chi si accosta al sacramento della Riconciliazione, soprattutto se giovane. Poteva darsi, forse ormai fino a mezzo secolo fa, infatti, che ci si avvicinasse a quello che molti definiscono “il sacramento difficile”, per mera abitudine o condizionamento del contesto. Oggi, è incontrovertibile che, non ci sia più nulla che culturalmente inviti alla riconciliazione sacramentale, anzi…dunque chi vi si accosta compie una scelta libera e contro corrente. Tale situazione, deve porre il confessore in un atteggiamento di profonda “valorizzazione del penitente”, che significa valorizzare non certo il suo peccato, ma il gesto di accostarsi al sacramento, per chiedere perdono a Dio.

Mi lascerò condurre, in queste riflessioni, da un noto episodio evangelico,  tratto da Mt 19,16-22: l’incontro di Gesù con il cosiddetto giovane ricco, provando a farne emergere alcuni aspetti, utili al nostro tema. Vorrei inoltre declinare tre verbi che mi paiono centrali per la nostra riflessione: incontrare, ascoltare, scegliere.

1. Confessione e discernimento vocazionale come “Incontro”
Quella sacramentale, ben lo sappiamo, è una dimensione che chiama costantemente in causa l’agire di Dio e l’agire dell’uomo: il loro incontro. Non è pensabile ridurre i sacramenti a mera automanifestazione della fede personale, come accade in certe odierne derive della speculazione teologica, né è possibile prescindere dal reale coinvolgimento della persona, intesa nella sua integralità ontologica, nel gesto sacramentale ecclesiale. I sacramenti sono azione di Cristo e della Chiesa, e l’identità sacramentale della Chiesa deriva dalla stessa identità umano-divina di Gesù di Nazareth: la stessa unione ipostatica è a fondamento della sacramentalità e dell’efficacia sacramentale, mentre la “fruttuosità agapica” è in relazione con la libertà della persona, che vive il gesto sacramentale.
Il sacramento, dunque, è definibile come incontro; con la medesima categoria teologica e personale, che possiamo utilizzare per definire il cristianesimo stesso. Come non ricordare, a tal proposito l’incipit dell’Enciclica “Deus Caritas  est”
del Santo Padre emerito Benedetto XVI: “All’inizio dell’essere cristiano […] c’è l’incontro con un Avvenimento, una Persona” (DCE, 1)?

Come confessori dobbiamo sempre tenere presente che, il gesto che ci apprestiamo a presiedere è innanzitutto un incontro, che ha solo nelle apparenze come protagonisti il sacerdote ed il fedele, ma che, in realtà, è un incontro del penitente con Cristo stesso. Una tale consapevolezza plasmerà necessariamente il tratto umano del confessore, che accoglierà ogni penitente, con ancora maggiore attenzione se giovane, con la stessa carità di Cristo, sapendo che è Lui che i fratelli devono incontrare, è Lui che devono ascoltare, è Lui che devono scegliere.
Non sempre i penitenti, ben lo sappiamo, giungono al confessionale con la domanda giusta, la domanda del giovane ricco: “Maestro che cosa devo fare per  avere la vita eterna?”. Anzi, molto spesso sono del tutto differenti le domande con cui il fedele si avvicina al sacramento. Tuttavia la sapienza del confessore deve saper leggere, anche in espressioni inadeguate, talora perfino distorte o pretenziose, l’eco remota della domanda di felicità e di compimento, presente nel cuore di ogni uomo.
L’accusa dei peccati è, oggettivamente, un momento di crisi, di messa in discussione del proprio giudizio, delle proprie espressioni, del proprio operato (pensieri, parole, opere ed omissioni). Per tale ragione è indispensabile chiedere allo Spirito Santo la grazia che quella “crisis” sia trasformata realmente in un momento di crescita, attraverso l’incontro con Cristo. Sappiamo che, prima di proporre al giovane la via della perfezione, il famoso “…Se vuoi essere perfetto”, Gesù, fissatolo, lo amò.

È qui descritta l’esperienza di un incontro vero, reale e perciò ontologicamente edificante, capace di costruire l’io, dei “nuovi io”, protagonisti della storia. Solo l’incontro con Dio è capace di ri-costruire il nostro essere, distrutto dal peccato; solo il sacramento della riconciliazione è quella nuova creazione capace, dopo il  battesimo, di ricostituirci pienamente nella relazione filiale con il Padre, fraterna con il Figlio, nella gioia dello Spirito Santo. Il penitente, consapevolmente o no, domanda al Signore di essere ri-creato, domanda che la sua vita sia trasformata, che sul suo male vinca la potenza di Gesù Cristo Salvatore.
In questa domanda del penitente, e nella risposta sacramentale che esso riceve, è racchiusa l’essenza dell’incontro reale con Cristo che la riconciliazione costituisce. Ne deriva - lo capiamo subito - l’enorme e santa responsabilità del Sacerdote, per ogni singola confessione, per ogni singolo penitente, perché l’incontro con i Signore non sia mai ostacolato. Ciò non implica in alcun caso la rinuncia al compito di “giudice e medico”, che la tradizione teologica riconosce al ministro, anche perché l’incontro con la verità della propria condizione esistenziale, è sempre incontro con la Verità che è Cristo.
La dinamica relazionale, insita nella celebrazione del Sacramento, ha in se stessa una valenza vocazionale. Ciascuno di noi potrebbe tentare di descrivere la vocazione, perché ne ha fatto - e ne fa – esperienza. Sottolineo “ne fa”, perché la vocazione è qualcosa che riguarda l’oggi, il mio presente!
Provo tuttavia a dare una definizione generalissima di vocazione, nella quale, forse, tutti si possono riconoscere: “Cristo e la vocazione” non è altro che il nostro rapporto con Cristo; la forma di tale rapporto non è stabilita da noi, ma da Lui. In questo consiste la sostanziale soprannaturalità della cosiddetta “scelta vocazionale”: essa non è tanto la scelta che l’io compie, quanto piuttosto la libera scelta che Dio compie, stabilendo la forma del rapporto, che ciascuno vive con Lui.
Conseguenza immediata ed evidente di una tale dinamica relazionale, è che  non si dà vocazione, prescindendo dal rapporto autentico e vitale con Cristo. Nell’incontro con Cristo si schiude quell’orizzonte nuovo dell’esistenza, che è anche la radice di ogni tensione e scelta morale; e la vocazione è il modo, la forma con cui entrare in rapporto stabile e permanente con Cristo, e tale modo è deciso dal Signore. Per tale ragione, Gesù afferma, rivolgendosi agli apostoli, che già lo  avevano incontrato: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16).
Possono certamente esserci vicende esistenziali nelle quali la conversione coincida con la vocazione, ma è sempre opportuno verificare che le due realtà siano distinte e che il fedele, soprattutto se giovane, non scambi l’entusiasmo per la vita nuova in Cristo, con una specifica chiamata.

2. Confessione e discernimento vocazionale come “Ascolto”
La struttura della Riconciliazione è in se stessa dialogica: sia nella sua dimensione storico-ecclesiale, sia in quella trascendente-soprannaturale. Se dal punto
di vista storico, la dimensione dialogica è cambiata nei secoli, passando dalla penitenza pubblica a quella auricolare, dunque da una dimensione più esplicitamente ecclesiale ad una più marcatamente personale (ma mai soggettiva!), non è mutata la sostanza del sacramento, nel quale, sia sotto il profilo celebrativo che sotto quello più interiore e spirituale, è determinante la dimensione dell’ascolto.
Ma “ascolto di chi?”, “ascolto di che cosa”?
Il primo, più elementare ascolto è quello a cui il penitente ha diritto quando si accosta al sacramento. Non è raro, purtroppo, ricevere le lamentele di fedeli scandalizzati dalla distrazione del confessore, non attento alle loro parole o, addirittura, intento a fare altro, durante il dialogo. Sotto questo aspetto, mi si permetta una sola indicazione, che vale per tutti: non si entra in confessionale con il cellulare acceso, né tanto meno lo si utilizza durante i colloqui sacramentali. Si ha notizia di taluni Confessori, intenti a “chattare sui social”, mentre i penitenti fanno la loro accusa. Questo è un atto gravissimo, che non ho timore di definire: “ateismo pratico”, e che mostra la fragilità della fede del confessore nell’evento soprannaturale di grazia che si sta vivendo!
Ascoltare, con profonda attenzione ed umiltà fraterna, quanto il penitente ha da dirci, significa porsi in ascolto del fratello più debole e povero, in ascolto degli ultimi. Infatti, nessuno è “più ultimo” di chi è nel peccato, soprattutto se è in peccato  mortale, e dunque si è separato dall’amore di Dio, vivendo la più profonda ed umanamente irrisolvibile delle povertà.
I confessori devono sempre aver presente che l’ascolto che prestano al delicatissimo momento dell’accusa, oltre ad essere un preciso obbligo del  loro  ufficio, è strumento che il Signore utilizza per far sentire il Suo amore di Padre ai vari “figlioli prodighi” che tornano a casa. Come nella nota parabola, il Padre non è indifferente al ritorno del figlio minore, ma: “Commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20), così l’ascolto attento, prudente, accorato, capace di cogliere le sfumature, l’ascolto profondo e paterno del penitente, è il primo passo di quel “miracolo di cambiamento” che la confessione determina. Un ascolto così, ricordiamolo, è frutto di grande autodisciplina, è frutto di quell’ascesi costante e rigorosa, che ci educa a mettere l’altro prima di noi stessi, a morire perché l’altro, il fratello peccatore, viva; esattamente come ha fatto Gesù!
È questa una delle ragioni per cui l’ascolto delle confessioni sacramentali dovrebbe sempre essere generosamente inserito in un normale orario d’impegni settimanali, e preceduto da qualche momento di raccoglimento profondo e di preghiera, domandando di divenire realmente capaci di ascolto, nella consapevolezza drammatica dell’importanza, talora determinante, della nostra mediazione umana. Un ascolto profondo, paterno ed accogliente, non di rado permette al fedele di aprire il cuore alla speranza ed alla misericordia, giungendo a confessare anche ciò che (sbagliando, speriamo invincibilmente) non pensava di poter confessare. È la dinamica dell’amore, che determina, quando incontrato, quell’affidamento e quell’abbandono che costituiscono parte fondamentale della stessa fede in Dio.
Ecco, allora, che “incontro” e “ascolto” s’intersecano, come due aspetti del medesimo avvenimento: solo se accade l’incontro è possibile porsi in autentico ascolto, e solo l’autentico ascolto permette di “dare un nome” all’incontro avvenuto, che è sempre, attraverso e al di là delle mediazioni, incontro con Cristo Risorto.

Se una caratteristica possiamo sottolineare, dell’attuale condizione giovanile, è proprio quella dell’assenza di figure capaci di autentico ascolto. I giovani, con le loro speranze e delusioni, con i loro desideri e le loro, contraddizioni e le loro paure, hanno urgente necessità di essere ascoltati, non soltanto dai propri coetanei (ammesso che siano capaci di ascolto), ma soprattutto da adulti veri, autorevoli, accoglienti, prudenti, capaci di una visione unitaria del mondo, dell’uomo e della vita, capaci da essere per i giovani, punti di riferimento saldi, affettivamente significativi ed esistenzialmente determinanti. Adulti che non scelgano mai al posto dei giovani, ma che sappiano indicare loro, in modo stabile e ragionevole, la meta e la strada per raggiungerla, sostenendoli nel cammino, talvolta arduo, che ciascuno deve compiere personalmente.

Il secondo “ascolto” - secondo solo in senso cronologico, nella dinamica relazionale interpersonale della celebrazione del sacramento – è quello dalla Parola di Dio, anche attraverso le Sacre Scritture.
Il Penitente ha il diritto di ascoltare, dalle labbra del confessore, non le  opinioni personali di un uomo, per quanto culturalmente preparato e teologicamente informato, ma solo ed unicamente la Parola di Dio, nella duplice dimensione delle
Sacre Scritture e della Tradizione vivente della Chiesa, interpretate dal Magistero autentico.
Se l’incontro è vero, esso apre alla dimensione dell’ascolto e la verità rivelata ha una sua propria forza insopprimibile!
Se indicata come mèta e come strada, e mai imposta in modo astratto o proposta come mero ideale irraggiungibile, la verità, per quanto apparentemente lontana dalla situazione esistenziale concreta del penitente, ha la forza della chiamata a divenire sempre più perfettamente ciò che la persona è.
Soprattutto nell’ascolto delle confessioni sacramentali dei giovani, posti in un’esistenza che, ovviamente, percepiscono come “davanti a loro”, il confessore è chiamato a farsi docile strumento dello Spirito Santo, mostrando, anche nelle indicazioni morali più specifiche, quel “nuovo orizzonte” e quella “direzione decisiva”, che l’incontro con Cristo ha spalancato.
Anche a livello psicologico, oltre che spirituale e teologico, unicamente lo sguardo fisso ad un grande ideale, che coincide con la santità, permette di superare ogni forma di ripiegamento e di peccato, confidando più nella forza attrattiva dell’amore e della verità e nel sostegno determinante della grazia, che nella propria fragile volontà. Questo è anche l’ambito vitale nel quale si potrà dischiudere la domanda vocazionale, la domanda sulla forma che Cristo vuole dare al rapporto stabile con lui.
Nell’ascolto della Parola di Dio, durante la Riconciliazione sacramentale, entrambi, confessore e penitente, sono anche sempre chiamati a vivere una profonda “correzione filosofica” della modernità. Mi spiego.

Per la filosofia antica, per Aristotele in particolare, il fondamento dell’etica era la ricerca della felicità; nell’Etica a Nicòmaco, Egli afferma che la felicità coincide con la “contemplazione delle essenze” (e quindi solo i filosofi possono essere felici).
San Tommaso d’Aquino, rielabora la concezione aristotelica e, confermando che il fondamento della morale sia la ricerca della felicità (quindi un fattore esterno all’uomo), fa coincidere la felicità con la beatitudine eterna, ed è questo l’autentico pensiero cristiano, in obbedienza alla divina rivelazione.
Kant porta, nella riflessione etica, un’autentica rivoluzione, affermando che, fondamento dell’agire morale non è tanto la ricerca delle felicità, quanto piuttosto la volontà del soggetto.
È immediatamente comprensibile, senza dilungarci in ulteriori considerazioni filosofiche, come la visione cattolica relazionale sia distante da quella solitaria e volontaristica, inaugurata dal pensiero moderno. Allo stesso tempo è doveroso constatare quale grande influsso abbia avuto una concezione della morale fondata sulla volontà soggettiva, non solo nella società contemporanea, ma anche, purtroppo, in taluni atteggiamenti spirituali, tentati da visioni pelagiane. Un esempio su tutti è rappresentato dall’atteggiamento pubblico nella valutazione degli atti umani: la cultura dominante non si domanda mai se un atto sia buono o sia vero, ma il suo “valore” è rappresentato unicamente dalla coerenza con il pensiero (cioè con la volontà kantiana) di chi lo compie. Il criterio morale è stato ridotto alla coerenza, indipendentemente da qualunque possibilità di paragone con la verità ed il bene, che viene considerata come indebita intromissione o, addirittura, tacciata di totalitarismo.
Comprendete, carissimi fratelli, come sia determinante la dimensione dell’ascolto e come possa diventare strumento che veicola non solo e non soltanto piccoli criteri pratici, ma una vera e propria visione dell’uomo, del suo rapporto con la realtà, con se stesso e con Dio. Il solo gesto semplice dell’accusa, del riconoscimento umile del proprio peccato, basta a smentire Kant; basta ad affermare l’insufficienza della volontà dell’uomo, l’insufficienza dell’uomo all’uomo; basta ad affermare che l’uomo non agisce moralmente, fondandosi solo sulla propria volontà (la legge morale dentro di me), ma anelando ad un compimento pieno, alla felicità, alla beatitudine, alla santità; ed anticipo reale e via alla santità è l’esercizio delle virtù, che rendono l’uomo felice. E tutti ne facciamo e ne abbiamo fatto esperienza.
Immaginiamo solo per un istante il bene che si può fare ad una persona, ed in particolare ad un giovane, liberandola da un’opprimente concezione volontaristica e solitaria della morale, ed inserendola nella dinamica relazionale della comunione dei Santi, nella quale concepirsi in cammino con l’intero Corpo ecclesiale, da esso amato, accolto e sostenuto, nel quale sentirsi “trainati” dall’affezione a Cristo e, per via della grazia sacramentale, “tirati dentro” la comunione con Lui, nel Mistero trinitario.
L’ascolto, che nasce dell’incontro, è dunque un ascolto a 360 gradi.
È ascolto attendo del penitente, ascolto della realtà, ascolto della Parola di Dio; è ascolto dell’amore e della verità ed è, così, apertura progressiva all’accoglimento della proposta vocazionale del Signore: “Una cosa sola ti manca, vendi quello che hai e dallo ai poveri ed avrai un tesoro in Cielo [cioè sarai felice], poi vieni e seguimi” (Mc 10,21).
Sappiamo quale fu l’atteggiamento, la risposta silenziosa e grave, del giovane; conosciamo, così, il dramma della libertà umana.

3. Confessione e discernimento vocazionale come “Scelta”.
Diceva San Giovanni Maria Vianney: “Dio ci perdona, anche se sa che peccheremo ancora”.
Lungi dal giustificare il peccato, l’affermazione, semplice e profonda, del grande ed esemplare confessore, nasce dalla realistica constatazione della fragilità umana e della ferita del “peccato delle origini”, che incide, anche dopo il battesimo, sulle facoltà superiori dell’uomo: sull’intelligenza, che non sempre conosce il vero, sulla libertà, che non sempre sceglie il bene (riducendosi a mero esercizio del libero arbitrio) e sulla volontà, che non sempre attua il bene, anche se l’intelligenza lo ha chiaramente visto e la libertà lo ha scelto.
La Confessione sacramentale è, allora, definibile come uno “spazio di libertà”, anzi forse è il solo vero spazio di autentica libertà donato all’uomo.
La libertà, infatti, non è “assenza di legami” o di condizionamenti, ma è certezza di un’appartenenza: è la certezza di essere amati incondizionatamente. Non esiste altro luogo, sulla terra, come la Riconciliazione sacramentale, nel quale sia possibile fare un’analoga esperienza: non solo essere amati incondizionatamente, nonostante il proprio peccato, ma anche vedere distrutto il proprio peccato ed essere amati in modo pieno, in modo infinito. L’uomo davvero libero è l’uomo amato, l’uomo che entra in rapporto con l’infinito, l’uomo che prega.
In quest’orizzonte di libertà, matura l’ascolto della volontà di Dio circa la Vocazione e la scelta di aderirvi o meno. Talora può sembrare impossibile che chi abbia davvero intuito la forma del rapporto con Cristo, da Lui stesso stabilita, possa decidersi diversamente. Eppure dobbiamo dolorosamente ammettere che sia  possibile.
È possibile intuire la Vocazione e scegliere di non seguirla.
Dobbiamo fare memoria dell’epilogo dell’incontro narrato nei Vangeli: “Se ne andò via triste”, cioè “senza felicità”, conscio del proprio “desiderio di un bene assente”, come San Tommaso definisce la tristezza. Nell’episodio del giovane ricco, non manca l’incontro, né l’ascolto, ma la libertà può davvero scegliere di non seguire, per le più svariate ragioni, “perché aveva molti beni”.
Il Signore Gesù non trattiene il proprio interlocutore con ulteriori ragionamenti persuasivi; continua ad amarlo, ma si arrende umilmente alle sue scelte, consapevole che morirà anche per lui, per i suoi peccati, per le sue scelte sbagliare ed irragionevoli, perché sproporzionate rispetto all’incontro fatto ed all’ascolto vissuto.
Gesù di Nazareth donerà la propria vita sulla Croce proprio perché la libertà di scegliere l’amore e la verità sia sempre preservata, (perché la morale, ed il rapporto con Lui, sia sempre l’esito di un’attrattiva. Per questo affermerà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)).
Il confessore è chiamato ad immedesimarsi con questo atteggiamento di Cristo: è chiamato ad amare la libertà del penitente, a rispettarla, anche quando le scelte che egli compie non appaiono ragionevoli né proporzionate con i doni ricevuti ed il cammino compiuto. Il confessore potrà solo continuare, fedelmente, ad indicare la mèta, ad annunciare la verità, a sostenere, innanzitutto con la preghiera e la penitenza, e poi con ogni altro mezzo utile ed opportuno, le scelte del penitente. Ma non potrà, e non dovrà mai, sostituirsi ad esse. (Questo sia per evidenti ragioni psicologiche e deontologiche, ma soprattutto ed ancora più evidentemente per chiare ragioni teologiche).
Rispettare le scelte del penitente, non significa in alcun caso condividerle e “benedirle”; significa semplicemente accettare di non potersi sostituire alla sua libertà.

Questo è un altro grande errore della cultura contemporanea che pretende non solo che le aberrazioni siano rispettate, ma che siano condivise e benedette e che nessuno si permetta di dire il contrario, di affermare l’esistenza, almeno, di un’alternativa reale e possibile. Solo  il  cristianesimo  riesce  ancora  a distinguere
adeguatamente, per amore, l’errore dall’errante (il peccato dal peccatore,  proprio
perché non identifica la persona con la propria autocoscienza, ma con il suo essere, mediato dall’esperienza storica della vita).
Il discernimento vocazionale, nel sacramento della riconciliazione, vede nelle concrete scelte del giovane, un proprio specifico momento di verifica: le scelte che egli compirà, avendo vissuto l’incontro con Cristo ed ascoltato la Sua Parola, diranno della Vocazione e dell’accoglimento o meno del modo che Cristo ha stabilito per entrare in rapporto permanente con Lui.
Il Confessore, giudice e medico, padre e pastore, maestro ed educatore può avere una straordinaria benefica influenza sul penitente, soprattutto se giovane, sia in forza della differente maturità, sia, soprattutto, per il ruolo che egli riveste, per il compito che gli è stato affidato. Il Confessore non dovrà mai dimenticare che non di rado i penitenti lo ascolteranno come se ascoltassero il Signore stesso e la  Sua volontà, pertanto ogni espressione, consiglio, indicazione, non dovrà mai essere determinato da meri criteri umani, pur se di comprensibile buon senso ed utilità, ma dal sincero ascolto, dal discernimento ed dall’accoglimento unicamente della Volontà di Dio, nella ricerca del vero bene della anime.

Vedete, carissimi amici, come sia drammaticamente serio il gesto, semplice, di entrare in confessionale, aiutando tutti, soprattutto i giovani, a rispondere alla loro vocazione, nell’incontro, nell’ascolto e nella scelta di Dio.

Mi auguro che questi giorni di Corso sul foro interno possano essere di aiuto al ministero che svolgete, o andrete a svolgere, e che la Beata Vergine Maria, Madre della Misericordia, vi assista sempre in questo indispensabile servizio che offrite a Cristo, alla Chiesa e a tutti gli uomini.

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