“Il cardo e la croce”. Ovvero la lezione di libertà dei cattolici scozzesi

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di Aldo Maria Valli, 30 novembre 2019
Cari amici di Duc in altum, oggi, nel giorno di sant’Andrea, parliamo di un bel libro dedicato alla Scozia, la terra della quale Andrea è il patrono. Il libro, Il cardo e la croce (Fede & Cultura, 192 pagine, 19 euro) è opera di un profondo conoscitore della storia scozzese, Paolo Gulisano.

Paolo, il sottotitolo del tuo libro Il cardo e la croce, dedicato alla Scozia, è Una storia di fede e libertà. Una storia nella quale i cattolici hanno giocato un ruolo decisivo, pagando un prezzo salatissimo in termini di martirio e persecuzione. Perché questo odio costante contro i “papisti”?

La Scozia è una piccola, magnifica terra, con un passato glorioso e doloroso e un presente e un futuro in incerto divenire. È una nazione con un forte senso di identità, che si è forgiato a partire dalla Fede cristiana. Non per niente la sua bandiera è una croce di sant’Andrea (il patrono della Scozia) bianca in campo blu. Il grande Chesterton – un inglese che tuttavia aveva anche un po’ di sangue scozzese – scriveva nella sua Storia d’Inghilterra: “I preti cattolici della Scozia diventarono il partito patriottico e anti-inglese; atteggiamento che poi dovevano conservare anche durante tutta la Riforma”. L’introduzione della Riforma in Scozia, nella sua versione calvinista, fu violentissima. A partire dalla seconda metà del Cinquecento si scatenò un’implacabile caccia al cattolico. Eppure l’antica Fede seppe resistere, in particolare nelle Highlands, le “terre alte” nel Nord del Paese, dove, nonostante le limitazioni imposte dalla legge, restò in vita un piccolo gregge.

Il grande, potente e ingombrante vicino della Scozia, l’Inghilterra, ha sempre guardato a quelle terre come a un bottino da arraffare. In che modo la religione è stata utilizzata a questo scopo?

Un  paese come la Scozia, che nel Medioevo diede numerosissimi monaci evangelizzatori dell’intero continente, teologi come Duns Scotus e Riccardo di San Vittore, cavalieri crociati che partirono dalle brume delle Highlands per morire sulle sabbie torride della Palestina, ha conosciuto come pochi altri e con largo anticipo la crudezza della persecuzione religiosa, il cui obiettivo fu l’eliminazione della Libertas Ecclesiae, che è poi lo scopo di ogni rivoluzione, di ogni tentativo di esercizio arbitrario e totalitario del potere. Si colpisce la Libertas Ecclesiae perché laddove la Chiesa è libera nell’adempimento della sua missione –  ossia andare con Cristo incontro agli uomini –,  laddove c’è libertà per la Chiesa c’è anche libertà per l’uomo, dal momento che è scritto “La Verità vi farà liberi”. L’Inghilterra cercò di dividere il Paese, combattendo e rovesciando la dinastia cattolica degli Stuart, inviando in Scozia predicatori fanatici come John Knox, secondo l’antico disegno del Divide et impera. Purtroppo riuscì nel suo scopo.

Secondo te, che sei un amante della Scozia, della sua storia e delle sue tradizioni, qual è la caratteristica saliente dell’animus scozzese? E quanto è importante la componente cattolica nell’identità scozzese?

La caratteristica saliente è l’amore per la libertà. Nel 1320, dopo essersela conquistata sul campo di battaglia pochi anni prima, gli scozzesi vollero che fosse garantita dalla più alta autorità morale del tempo, quella del Papa. Così si radunarono in un’abbazia benedettina e redassero uno straordinario documento, la Dichiarazione di Arbroath, in cui chiedevano al Pontefice di sancire il loro diritto a esistere come nazione indipendente. Nel testo c’è un passaggio straordinario e commovente che è il seguente: “In verità non è per la gloria, non per le ricchezze, non per gli onori che noi combattiamo, ma per la libertà… per quella sola, a cui nessun uomo retto rinuncerebbe, anche a prezzo della vita stessa”. Durante la Riforma, quando il calvinismo di John Knox scatenò una terrificante e devastante persecuzione della Chiesa, l’abbazia di Arbroath fu, significativamente, rasa al suolo, diventando una cava di pietre. Il retaggio cattolico doveva essere cancellato.  Invece sopravvisse, ma diventò inevitabilmente una componente minoritaria.

“Conservate la fede con gioia” disse Giovanni Paolo II ai giovani cattolici incontrati a Glasgow nel 1982. Qual è lo stato di salute della Chiesa cattolica in Scozia?

Il viaggio di Giovanni Paolo in Scozia fu la realizzazione di un sogno a lungo coltivato e frustrato per i cattolici scozzesi: vedere riconosciuta la propria legittima presenza nel Paese, il proprio ruolo, il proprio contributo all’edificazione della nazione. Fu un momento intenso e commovente. Il Papa ricordò agli scozzesi il retaggio più importante lasciato dai loro padri: la santa fede cattolica. E aggiunse queste parole: ”Voi attingete le vostre origini in un glorioso passato, ma non vivete nel passato. Appartenete al presente, e la vostra generazione non deve accontentarsi di riposare sugli allori conquistati dai vostri padri e antenati. Dovete dare la vostra risposta alla chiamata di Cristo perché lo seguiate ed entriate con lui come coeredi nel Regno del Padre. Ma ci sembra più difficile seguire Cristo oggi che in passato”. Parole verissime. La Chiesa in Scozia oggi soffre, come dovunque, di un calo di vocazioni religiose. Anch’essa ha conosciuto, anche se in maniera molto minore che nella vicina Irlanda, lo scandalo degli abusi sessuali del clero. Nel 2013, alla vigilia del conclave che avrebbe eletto al soglio pontificio il cardinale argentino Bergoglio, l’arcivescovo di Edimburgo e primate di Scozia, il cardinale O’Brien, fu costretto a dimettersi dopo le accuse nei suoi confronti di alcuni sacerdoti che da seminaristi erano stati oggetto delle sue advances sessuali.

Oggi in Scozia la figura di maggior spicco nella Chiesa è l’arcivescovo di Glasgow Philip Tartaglia, di origini italiane ma è profondamente radicato nella cultura e nelle tradizioni scozzesi, un prelato che ho l’onore e il piacere di conoscere personalmente. Proprio monsignor Tartaglia mi ricordava recentemente che oggi il principale problema della Chiesa in Scozia non è più, come in passato, il confronto-scontro con altri cristiani, come i protestanti, ma con una cultura dominante che è anti-cristiana tout court. La cultura della secolarizzazione imperante che in Gran Bretagna è particolarmente aggressiva e intollerante.

Nel movimento indipendentista scozzese è possibile rintracciare anche contenuti di carattere religioso?

Il movimento indipendentista è molto attento a far sì che non riemergano le forme di settarismo che in passato, fino a non molti anni fa, hanno funestato la vita pubblica in Scozia. Per questo è un movimento senza riferimenti confessionali. In esso militano cattolici e protestanti, e c’è persino qualche rappresentante politico di religione mussulmana.  Non è tuttavia uno pseudo-neutralismo, come quello che conosciamo nel resto d’Europa: sembra essere un autentico rispetto dei diritti di ogni persona, compresi i diritti religiosi. Ci sono poi esponenti politici che personalmente testimoniano la propria fede nell’agire politico, difendendo quelli che un tempo non lontano (anche se oggi appare remoto) erano chiamati “valori non negoziabili”.

“Sono le ballate, e non le leggi, a costruire una nazione”, scrisse nel 1707 Andrew Fletcher, paladino delle libertà del popolo scozzese. Nell’era della globalizzazione c’è ancora qualcosa di vero in questa affermazione di sapore romantico? 

Nel 1707 la Scozia, attraverso l’Atto di Unione approvato dai parlamenti inglese e scozzese, cessava di essere una nazione libera e indipendente. A partire da quell’anno, definito dai patrioti scozzesi annus horribilis, l’intera isola britannica ricadde sotto un unico governo, quello di Londra. Nel momento più oscuro della storia della nazione, quando essa stessa, per volontà della maggioranza dei propri rappresentanti politici e delle oligarchie, rinunciava alla propria libertà consegnandola agli inglesi in cambio di vantaggi economici – peraltro riservati ad una ristretta oligarchia – e della garanzia che sarebbero stati mantenuti gli assetti civili e religiosi determinati dalla Rivoluzione del diciassettesimo secolo e dalla Riforma protestante, Fletcher fece una dichiarazione che all’epoca poteva sembrare un sentimentale attaccamento alla tradizione e ad un glorioso passato ormai tramontato, e che oggi, agli inizi del XXI secolo e alla luce degli avvenimenti degli ultimi anni nello scontro tra Globalismo e Identità,  assume invece una dimensione quasi profetica.  Le “ballate” stanno a significare non già un’espressione intellettuale e romantica, ma la memoria tenace della storia.  D’altra parte, come diceva il grande scrittore americano John Steinbeck, quella della Scozia non è una causa persa. È una causa ancora non vinta.

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