Tracce per le omelie di Natale


Traggo liberamente da Sul Natale di Joseph Ratzinger, omelie del 1977

La prima e propria messa di Natale nella sera del 24:
su, andiamo a Betlemme
Su, andiamo con la memoria e l’attualizzazione liturgica a Betlemme! La frase pronunciata dai pastori nella Notte Santa è stata ripetuta, cantata da allora innumerevoli volte. Con essa il Natale è diventato una possibilità effettiva, con essa
viene detto  che cosa significhi festeggiare il Natale, perdonati nella  Confessione, alimentati nella Comunione, testimoniando con la carità verso chi incontriamo bisognoso. Si tratta di ravvivare il cammino del vissuto cristiano, come i pastori per poter udire nell’annuncio della Parola la voce dell’angelo che questa sera annuncia la gioia di Dio per ogni essere umano del suo amore. Infatti questa gioia è sempre attuale anche nelle tribolazioni perché proviene da Dio. Occorre cercare la strada, mettersi in marcia, riconoscere Dio che si è fatto bambino e si fa particola e vino sul nostro altare per portare anche oggi nel mondo la gloria di Dio come pace per gli uomini che egli ama, cioè tutti.
Andiamo a Betlemme: un’espressione ripetuta da tante recite natalizie e canti pastorali. Erano il punto per inserirsi nell’evento biblico. Forse non erano in grado di fare riflessioni sulla Trinità, su Dio unico nel suo essere divino ma Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma con la memoria potevano identificarsi con i pastori verso quel Dio che si presentava bambino, Figlio di Dio, che potevano rispondere al suo amore, perché si era fatto così vicino a loro, era entrato, nascendo in una stalla, nel loro mondo.
Per noi la cosa è più difficile perché lontani nel vissuto dalla semplicità dei pastori e del loro mondo. Ma ci conforta il fatto che anche i saggi che venivano dall’Oriente, che celebreremo nell’Epifania, esponenti di una civiltà raffinata e progredita che in certo qual modo rappresentano anche noi, hanno trovato la via che porta alla mangiatoia. Vengono in mente le parole che Evelyn Waugh fa dire all’imperatrice Elena quando, nel momento in cui trova la croce di Cristo, del Risorto che si fa presente nella sua Chiesa, va con il pensiero a quei saggi venuti all’Oriente. L’imperatrice dice loro: “Siete arrivati tardi, proprio come me. Prima di voi sono arrivati i pastori, e persino gli animali. Erano già radunati con il coro degli angeli quando voi non vi eravate messi in cammino. Per causa vostra persino le norme rigide che regolano il corso degli astri hanno dovuto essere un po’ modificate. Miei cari cugini, pregate per me, pregate per i grandi questo mondo, pregate per tutti gli eruditi e i superbi, perché non siano dimenticati davanti al trono di Dio, quando i semplici entreranno nel loro regno”.
Noi, persone che sperperano di fronte a milioni che muoiono di fame, noi che facciamo fatica a credere che il Risorto, il Dio che si è fatto bambino, oggi sacramentalmente si fa presente nell’eucarestia e agisce nei sacramenti, abbiamo sicuramente bisogno di questa preghiera, affinché anche noi oggi possiamo vedere la stella, sentire oggi la voce dell’angelo e trovare la via che conduce a Betlemme. Ma oggi da dove passa questa via?
Ascoltiamo il Vangelo del Natale e chiediamoci: che persone erano dunque quei pastori che conoscevano la via, ai quali è sufficiente mettersi in cammino? Che cosa si deve fare. Come si deve essere per riconoscere nei segni sacramentali di oggi quella via umana di Dio? La tradizione della Chiesa sul fondamento biblico ha sempre considerato molto importanti due dati: i pastori erano accampati in aperta campagna ed erano svegli. Erano senza dimora, come quella sera lo erano Giuseppe e Maria. Quelli stavano nei palazzi e nelle case dormivano e non udirono l’angelo. I pastori erano persone che vegliavano. In questo possiamo scorgere qualcosa di molto profondo, che può, in modalità diverse, e deve riguardare anche coloro che hanno una propria dimora. In noi deve restare vigile il cuore dal rischio che il desiderio naturale di Dio ci schiavizzi idolatrando bene relativi, in noi deve rimanere pulita la capacità di cogliere le realtà più profonde, di consentire a Dio di far risuonare la sua Parola. E’ questa capacità di restare vigili con il cuore libero, che unisci ai pastori i saggi che vengono dall’Oriente, i superbi, e permette loro, anche in tempi più lunghi, di trovare la via, di cogliere i segni dei tempi, anche se nel loro caso questo avviene in maniera più lenta, più complicata, attraverso esperienze negative, con un percorso difficile e a prezzo di ricerche faticose.
La domanda, nell’esame di coscienza della sera del 24 dicembre, è allora la seguente: con tutta la preparazione dell’Avvento siamo davvero più vigili? Siamo liberi da idoli? Non siamo forse ancora tutti terribilmente malati di snobismo, di scetticismo presuntuoso? Può udire la voce dell’angelo, anche il biblista, chi ancora prima di poterla ascoltare nella liturgia sacramentale di Natale pensa di sapere già con certezza che l’angelo non esiste? Anche se la udisse nell’ascolto religioso della Parola di Dio, egli la interpreterebbe a modo suo. E chi si è abituato a formulare giudizi sprezzanti su tutto e su tutti, a sapere più degli altri, a buttare nel cestino il patrimonio del passato per assolutizzare l’essendi del futuro anziché l’essere, il divenire anziché la memoria, a mettere quindi tutto in discussione, come potrebbe dare ascolto a quella voce presente? Mi sembra sempre più chiaro che la morte dell’umiltà per lo sguardo sulla realtà in tutti gli ambiti o verità che rende liberi è la vera causa della nostra incapacità di credere e quindi una tipica malattia del nostro tempo, e capisco sempre di più per quale motivo Sant’Agostino abbia detto che l’umiltà è l’essenza del mistero di Dio che assume un volto umano di bambino, di Cristo che si fa presente nell’Eucarestia e nei sacramenti, come nei poveri, in ogni volto umano comunque ridotto. Agostino stesso era uno di quei superbi che fanno molta fatica a scendere dal loro piedistallo materialistico e fatalistico e che trovano la strada che porta all’attualizzazione liturgica della mangiatoia con grande difficoltà e solo percorrendo vie traverse.
Quanto è importante di rendersi conto che il nostro cuore non è vigile, non è libero, quindi incapace di amare e di essere amato. E’ pieno di pregiudizi e di saccenteria. E’ stordito da tante attività e impegni, paralizzato dalla frenesia e dalla fretta. E tuttavia l’annuncio evangelico offre il conforto di sapere che anche per i superbi, per i distratti esiste la strada, che anch’essi, anche con tempi lunghi, possono diventare come i pastori, se con questi ultimi rimane comune la capacità che può accadere, anche attraverso sofferenze, la capacità di essere vigili e liberi. Perciò non possiamo, da questa sera, non impiegare questi otto giorni di natale, liturgicamente come un unico giorno, senza lasciarci stordire, ma farli diventare in famiglia, in parrocchia, in cenacoli momenti di respiro e di liberazione, di modo che il cuore impari di nuovo ad ascoltare e a vedere cioè ad amare, ad essere amati.
Il Vangelo liturgico del Natale ricorda un’altra cosa importante sui pastori: si affrettavano ad andare a Betlemme e riferivano tutto quello che avevano udito ed esperimentato. Quegli uomini, che sicuramente erano di poche parole, lodavano e glorificavano Dio, ciò di cui il loro cuore era pieno traboccava dalle loro labbra. Si affrettavano in modo amante. Questa specie di fretta la troviamo molte volte nella   Sacra Scrittura: Maria si mette in cammino in fretta dopo l’Annunciazione per andare a far visita alla sua parente Elisabetta e verificare se incinta da sei mesi fuori del periodo fecondo; i pastori si affrettano a raggiungere la mangiatoia per vedere il Dio in un bambino che porta pace ad ogni essere umano amato; Pietro e Giovanni corrono dal Risorto annunciato dalla Maddalena. Questa fretta però non ha niente a che vedere con la frenesia di chi è assillato da scadenze pressanti. E’ il suo contrario. Significa che la fretta ingiustificata non ha più ragione di essere quando si presentano davanti a noi le cose che sono davvero grandi e importanti. E’ al gioia che mette le ali ai piedi all’uomo. Sant’Ambrogio dice che la grazia dello Spirito Santo non conosce pesi che la possano trattenere. Ciò significa che le cose che appesantiscono il cuore e il passo nel nostro camminare verso Dio finiscono per staccarsi da noi. Significa che se ne vanno da noi i dubbi, la saccenteria e la falsa erudizione che rendono così difficoltoso il nostro cammino verso di Lui. Significa che impariamo a camminare sulle ali della gioia. Questa fretta non nasce dalla precipitazione, bensì dalla scomparsa della precipitazione, nasce dalla leggerezza del cuore. Chesterton ha detto molto argutamente che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E in sintonia con questa affermazione “niente è difficile, se non ci prendiamo troppo sul serio” la frase san Giovanni XXIII, tratta dall’esperienza profonda della sua vita e delle lotte da lui sostenute: “Tutto diventa facile, se ci stacchiamo da noi stessi, se ci rilassiamo”. La soluzione natalizia è rilassarsi, porre l’accento non tanto su noi stessi quanto su Dio che si è fatto bambino, che si fa particola, volto umano. Ecco che allora il cuore diventa leggero, diventa libero, diventa capace di ascoltare e di fare da guida.
In conclusione mi viene in mente il gioco di parole con cui san Giacomo, nella sua lettera ai cristiani che fa parte del Nuovo Testamento, descrive la differenza esistente tra i pastori e i superbi, indicandoci così una strada con la quale noi, da superbi quali siamo, possiamo arrivare al Signore. Dapprima san Giacomo critica aspramente i ricchi, i superbi e gli eruditi ripiegati sul proprio io, che pensano di essere l’autentico Israele. In una delle sue rampogne dice: “Avete rimpinzato i vostri cuori” (Gc 5,5). Poi si rivolge ai poveri, ai semplici, a coloro che credono nel Dio con noi, e li rafforza, li conforta e li esorta: “Rinvigorite i vostri cuori” (Gc 5,8).  Qui sta la differenza. Se si rimpinza il cuore, lo si rende sordo alla voce di Dio. Se si rinvigorisce il cuore, lo si rende capace di ascoltare, lo si fa diventare il centro di ogni essere umano e si fa in modo che uomo-donna possano trovare il loro centro. Rimpinzare il cuore: non è purtroppo proprio questa la descrizione di ciò che per lo più facciamo a Natale, riempiendoci il corpo e la mente per stordire il cuore, per ridurlo al silenzio perché non vogliamo ascoltarlo? Dovremmo fare il contrario: non rimpinzare il cuore, ma destarlo, rinvigorirlo, affinché  ci renda nuovamente capaci di vedere, capaci di udire la voce dell’angelo.
Mi viene in mente una storiella ebraica. In essa si narra di un sapiente che temeva di perdere la fede nel Dio con noi, che ci ama fino al perdono e che andò da un uomo pio per chiedergli consiglio. Quest’uomo, un seguace del chassidismo, non si impelagò in discussioni filosofiche, si limitò a ripetere parecchie volte, di fronte all’erudito in preda ai dubbi, le preghiere che quest’ultimo nella sua infanzia aveva imparato a memoria. Questo fu tutto quello che fece. L’uomo di fede non discute con chi dubita, piuttosto prega con lui. Recita le preghiere della sua infanzia, con le quali il suo cuore si era aperto a Dio. Rinvigorisce il cuore. La Chiesa a Natale vuole proprio fare questo con noi. Essa fa con noi la stessa cosa che quell’uomo pio ha fatto con chi era in preda al dubbio. Essa ripete con noi le preghiere che abbiamo imparato a memoria nella nostra infanzia, le preghiere con le quali il nostro cuore si è aperto a Dio. Prega con noi per rinvigorire il nostro cuore e quindi per guarirci. Andiamo fino a Betlemme! Preghiamo il Signore perché ci aiuti in questa prima liturgia del Natale.

La Messa nella notte: Dio si nasconde in un bambino, oggi risorto nella particola
Dio ha assunto un volto umano. Onnipotente è diventato un bambino. In questo modo egli adempie la grande e misteriosa promessa secondo la quale sarà “Emmanuele, un Dio con noi”. Dio si è fatto così vicino a noi, si è presentato in maniera così dimessa, che ognuno può sentirsi a suo agio con lui. Diventando un bambino, Dio ci propone di dargli del tu. Ha abbandonato ogni lontananza e inaccessibilità. Non è più irraggiungibile per nessuno. A meno che qualcuno si sia posto tanto al di sopra degli altri che nessuno possa più dargli del tu, che un bambino, un bambino sconosciuto, nato in una stalla, non possa più entrare nella sua vita. Dio è Emmanuele. Diventando un bambino, ci propone di dargli del tu. 
Mi viene in mente a questo proposito una storiella rabbinica riportata da Elie Wiesel. Essa racconta di un ragazzo, chiamato Jeschiel, che un giorno si precipita piangendo nella camera di suo nonno, il famoso rabbino Baruch. Le lacrime gli scorrono sulle guance ed egli si lamenta dicendo: “Il mio amico mi ha piantato in asso. E’ stato proprio ingiusto e sgarbato con me”. “Senti, non puoi spiegarmi meglio come sono andatele cose?”, gli chiede il rabbino. “Sì”, risponde il ragazzo. “Stavamo giocando a nascondino, e mi ero nascosto così bene che il mio amico non riusciva a trovarmi. Allora ha smesso di cercarmi e se n’è andato. Che razza di modo di comportarsi!”. Il più bello dei nascondigli ha perso tutto il suo fascino perché l’amico ha smesso di giocare. Il rabbino accarezza il fanciullo sulle guance, anche a lui salgono le lacrime agli occhi mentre dice: “Sì, è davvero un modo di comportarsi che non va. E guarda: con Dio è  la stessa cosa. Si è nascosto, e noi non andiamo a cercarlo. Pensa un po’: Dio si nasconde e noi uomini non lo cerchiamo neppure”.
In questa storiella un cristiano può trovare compensato tutto il mistero del Natale. Dio si nasconde come onnipotente in un bambino, risorto in una particola. Non ci abbaglia con lo splendore della sua grandezza. Non ci costringe con la sua potenza a inginocchiarci davanti a lui. Vuole che tra lui  e noi ci sia il mistero dell’amore, che presuppone il rischio della libertà. Vuole che vi sia l’attendere, il cercare, l’andare e il trovare, dai quali sorge di nuovo da ogni creatura quel sì all’amore che in essa rappresenta il mistero peculiare ed eterno. Dio aspetta che ogni creatura si metta in cammino, che esprima un nuovo e libero sì alla sua proposta, che a partire dal creato si realizzi di nuovo l’evento dell’amore. Dio aspetta  ogni uomo anche per tutta la vita. E per noi vuole che possiamo fare questa esperienza realmente divina: l’esperienza della libertà, del cercare, dello scoprire e del gioioso sì a un amore che è il cuore del mondo e grazie al quale il mondo è buono e noi siamo buoni.
Dio  è Emmanuele cioè Dio con noi. Dio si nasconde affinché noi siamo la sua immagine, affinché in noi ci possano essere libertà con il rischio del no e quindi con il si amore. E che nascondiglio ha trovato! Si nasconde in un bambino, in una stalla, oggi in una particella di pane, in una particola e un po’ di  vino. Sembra essere la massima contraddizione immaginabile rispetto all’onnipotenza e al cielo d’ogni bene senza alcun male. Ed è per questo che i dotti esegeti della Bibbia non sono riusciti a trovarlo. Sapevano bene che il Messia sarebbe nato a Betlemme, nella città di Davide, pastore nello splendore  della grandezza del nome di Dio, e che avrebbe mandato dei pastori, come sta scritto nel libro del profeta Michea in riferimento al mistero della Notte Santa. Sapevano che cosa sta scritto in quel libro. Conoscevano la letteratura con i suoi problemi, le sue interpretazioni, i suoi messaggi. Ma la letteratura è rimasta tale. I grandi teologi sono rimasti attaccati alla parola e non hanno trovato al di là delle parole la strada che li conducesse alla realtà di Lui tra noi. Erode non pensava che quel bambino potesse essere Dio. Al massimo poteva immaginare che Dio fosse un sovrano ancora più crudele e potente di lui. In ogni caso quel bambino era un futuro rivale e che doveva essere tolto di mezzo. Tutte queste persone non hanno trovato Dio nel suo nascondiglio. E noi riusciamo a trovarlo risorto nel sacramento dell’Eucarestia, in ogni volto, soprattutto dei poveri? Con la nostra presunzione, la nostra saccenteria, la nostra erudizione? E, soprattutto, lo cerchiamo? Non abbiamo forse fatto anche noi come quel ragazzo che giocava a nascondino, non abbiamo già da tempo abbandonato il gioco della liturgia che rappresenta la verità autentica della nostra vita? E qual è la persona libera da pregiudizi che accetterà di piegarsi davanti al bambino, di adorarlo e di riconoscere che in lui è entrato il Dio eterno che è in mezzo a noi? Quella persona troverà mille scuse, mille motivi per non farlo.
Dio si nasconde perché vuole che gli assomigliamo, vuole che la verità e l’amore nascano in noi, tuttavia egli non è soltanto nascondimento. Il Natale è il nascondiglio di Dio, se vogliamo esprimerci in questo modo, ma insieme alla Pasqua è anche la sua più grande manifestazione. Dio non ci lascia soli in questo gioco che è la verità: è lui che l’ha progettato e gli ha dato inizio. Egli ci segue sempre. Tramite il creato ci rivolge incessantemente la parola, purché noi vogliamo udirlo e vederlo, e ci dice: “Cercatemi!”. Nella storia di Abramo (Dio disse ad Abramo) ci ha dato le regole, ci ha rivelato gli indizi grazie ai quali lo possiamo trovare. Egli per primo ci cerca continuamente affinché noi riusciamo a cercarlo. Ha rifatto verso il basso tutta la scala delle distanze esistenti tra lui e noi, fino ad assumere un volto umano, fino a farsi bambino e risorto a farsi presente e ad agire sacramentalmente. Si potrebbe dire che è uscito dal suo nascondiglio rivelandosi nel volto umano di Gesù e che addirittura amandoci fino al perdono ci corre continuamente dietro, affinché non smettiamo di cercarlo, affinché diventiamo capaci di trovarlo. Nel bambino egli diventa visibile così com’è, vale a dire come amore che può fare cose straordinarie, che ha tempo di farsi uomo. Egli diventa visibile come libertà senza mai costringerci, che è capace di agire in quel modo. Noi l’onnipotenza la immaginiamo completamente diversa cioè senza amore. Tutt’al più ammettiamo che un Dio sconosciuto possa rappresentare in qualche modo la statica e la meccanica dell’universo, possa in qualche modo mettere in movimento il tutto. Ma l’onnipotenza grazie alla quale Dio può conoscere ciascuno di noi, interessarsi dei nostri destini e farsi piccolissimo per noi è qualcosa di troppo audace, non gliela consentiamo, la nostra erudizione la rimuove. Nel bambino, però, Dio il suo modo di amare, il suo modo di essere onnipotente senza costringere, sono più che mai evidenti. Chi incomincia a capire questo modo di amare e questo modo di essere onnipotente cade in ginocchio ed è colmato dalla grande gioia che l’angelo ha annunciato nella Notte Santa.
Andiamo a Betlemme, si sono detti l’un l’altro i pastori. Andiamo a Betlemme attraverso la Confessione e la Comunione natalizia: in questa notte la Chiesa, attualizzando nella celebrazione eucaristica tutti i momenti dell’incarnazione fin dalla nascita, vuole far sì che i nostri cuori accolgano questa esortazione. Ci vuole invitare a metterci in cammino, a passare dall’altra parte. E in effetti, per trovare Dio nei volti umani, è necessario proprio questo: passare dall’altra parte, trasformarsi dal suo amore. Perché Dio è diverso da come siamo noi. Spesso noi viviamo senza il rimando a Lui.. Con i nostri pensieri e i nostri progetti andiamo in direzione contraria al suo amore. Viviamo dalla parte opposta rispetto a quella in cui egli si trova, ci muoviamo in direzione opposta alla sua volontà. Per questo Dio si è nascosto a noi. Se vogliamo trovarlo, incontrarlo, ascoltarlo, dobbiamo passare dall’altra parte, dobbiamo attraversare con il nostro cuore la strada delle contraddizioni e trovare il cammino che porta alle trasformazioni, fino a che egli diventi sacramentalmente visibile e udibile. Riferendosi all’Antico Testamento, San Paolo dice che per incontrare Dio non è necessario che tu attraversi l’oceano. E neppure, prosegue, è necessario che tu salga fino al cielo o che discenda fino agli inferi (Rm 10, 5-8; Dt 30, 11-14). Oggi noi possiamo fare tutte queste cose, e le facciamo, ma non per cercare Dio, bensì per evitarlo. Paolo dice che Dio con il Natale è vicinissimo a te. E’ sulla tua bocca e nel tuo cuore (Rm 10,8-10; Dt 30,14). Abbiamo bisogno di compiere questo viaggio verso ciò che ci è vicino. Dobbiamo cercare Dio con noi, vicino a noi, per trovare il nascondiglio sacramentale che è la sua manifestazione visibile. Questa notte ci deve incoraggiare a fare questo passo nella comunione con Lui e tra noi.

Messa nell’aurora: Dio bussa
Se consideriamo la liturgia del Natale della Chiesa, essa ci appare come un tessuto prezioso composto di molteplici fili: i fili dell’Antico Testamento o Antica Storia di Amore, principalmente dei Salmi e dei profeti, quelli delle Lettere di Paolo e infine le diverse tonalità di tre evangelisti, Matteo, Luca e Giovanni. Due di essi, però, Luca e Giovanni, formano la vera bitonalità natalizia nella Messa dell’aurora e del giorno da cui è costituita la fede nel Natale della Chiesa. Se non si tiene conto di ciò, si distrugge l’autentico mistero, l’autentico sacramento del Natale.
Luca, che fa risalire la sua tradizione alle cose sulle quali Maria ha riflettuto e ha serbato in sé nella contemplazione del mistero cioè del sacramento di Dio vicino, nel suo racconto ci fa conoscere la partecipazione umana e il fervore materno con cui la madre del Signore ha vissuto gli eventi della Notte Santa.
Giovanni non prende in considerazione i particolari umani del racconto per far giungere invece lo sguardo fino agli abissi dell’eternità, per farci riconoscere i veri ordini di grandezza dell’evento che attualizziamo nella celebrazione eucaristica con la possibilità di amare in modo divino fino al perdono: la Parola cioè il Verbo del Padre si è fatta carne, ha assunto nel grembo verginale di Maria per opera dello Spirito santo un volto umano che ci ha amato sino alla fine, ogni persona e l’umanità nel suo insieme e dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e riceviamo dalla continua presenza sacramentale di Risorto grazia su grazia. Per questo i Concili della Chiesa delle origini si sono sforzati di esprimere con le parole della logica umana questa cosa grande, inattesa e sempre inconcepibile e indicibile: nel tempo il figlio eterno di Dio è diventato figlio di Maria. Colui che è generato dal Padre nell’eternità è diventato uomo nella storia grazie a Maria. Il vero figlio di Dio è figlio dell’uomo, ha un volto umano rivelando contemporaneamente chi è Dio e chi è ogni essere umano che Dio ama fino al perdono.
Oggi nella cristianità la memoria di questi dogmi non conta molto, relativizzata per tendere a un divenire fideistico senza sapere. Ci sembrano troppo grandi e troppo remoti per poter influenzare la nostra vita, la pastorale della Chiesa. E ignorarli o non prenderli troppo in considerazione, facendo del figlio di Dio più o meno un uomo meraviglioso da memorizzare, da imitare più che incontrare sacramentalmente, ecclesialmente da risorto sembra essere quasi una specie di “trasgressione” perdonabile per i cristiani di oggi ritornando alla semplicità dei vangeli. Si adduce il pretesto che tutti questi concetti della tradizione dogmatica sono talmente lontani da noi che non riusciremo mai a tradurli in parole in modo convincente e in fondo neppure a comprenderli. Inoltre a livello pastorale ci siamo fatti un’idea tale della tolleranza della Bibbia senza Catechismo e del pluralismo delle interpretazioni soggettive, che credere che la verità si sia effettivamente manifestata e compresa nei dogmi sembra essere nientemeno che una violazione della tolleranza e dell’ecumenismo. Però, se pensiamo in questo modo, cancellando il patrimonio tradizionale di verità che il catechismo ci attualizza, rischiamo di fare dell’uomo un essere a cui è definitivamente precluso il vero che fonda la libertà e quindi l’amore, la morale, l’etica sociale, e costringiamo noi stessi e il mondo ad aderire a un vuoto relativismo  con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Non riconosciamo quello che di salvifico c’è anche oggi nel Natale, che esso cioè da la luce, che si manifestata e che si è rivelata a noi la via, che è veramente via perché è la verità che fonda la centralità di ogni uomo che Dio ama, la sua libertà. Se non riconosciamo che Dio, il Figlio del Padre nello Spirito Santo, si è fatto uomo nel grembo verginale di Maria, rivelando chi è Dio e chi è ogni uomo, non possiamo veramente festeggiare nel nostro cuore la persona del Natale, con la sua gioia grande che s’irradia  oltre noi stessi, anche attraverso i doni natalizi. Se questo patrimonio dogmatico dei Vangeli viene ignorato, molte cose natalizie possono funzionare anche  a lungo culturalmente, ma in realtà la Chiesa comincia a spegnersi a partire dal suo cuore. Non accogliendo la fede nella sua verità, non vivendola e non pensandola anche pubblicamente, avviene il dramma della frattura attuale tra Vangelo e cultura. E la Chiesa finirà per essere disprezzata e calpestata dagli uomini, proprio nel momento in cui crederà di essere per essi accettabile. 
La Parola, il Verbo del Padre nello Spirito Santo, si è fatto carne, ha assunto un volto umano nel grembo verginale di Maria e Risorto si fa presente e agisce sacramentalmente nella Chiesa. Accanto a questa verità presentataci da Giovanni soprattutto nella Messa del giorno, occorre però anche la verità di Maria, che ci è stata rivelata da Maria al centro della Messa dell’aurora. Dio si è fatto carne, bambino. Questo non è soltanto un evento incommensurabilmente grande e lontano da noi, è qualcosa di molto umano e a noi molto vicino, che la liturgia attualizza rendendo Maria anche donna eucaristica: Dio si è fatto bambino, un bambino che come tutti i bambini ha bisogno di una madre ed essendo anche nella natura umana Persona divina, è madre di Dio. Dio è diventato un bambino, creatura che entra nel mondo piangendo, la cui prima voce è uno strillo che chiede aiuto, il cui primo gesto è rappresentato dalle mani tese in cerca di sicurezza. Dio è diventato bambino unito in qualche modo a tutti i bambini. D’altra parte sentiamo anche dire che queste cose non sono che sentimentalismo, che sarebbe meglio lasciare da parte. Ma il Nuovo Testamento, la Nuova Storia di amore ha altre idee nel patrimonio di fede della Tradizione Cattolica. Per la fede della Bibbia e della Chiesa è importante che Dio abbia voluto rivelarsi definitivamente assumendo anche l’essere simile a creatura, dipendente dalla madre, dipendente dall’amore protettivo dell’uomo. Dio ha voluto essere anche creatura che dipende dagli uomini, per suscitare in noi l’amore che ci purifica e ci salva. Dio è diventato bambino e il bambino è una creatura che dipende dagli altri. Così nell’essere bambino c’è già il tema della ricerca di asilo, un tema fondamentale del Natale. E quante variazioni ha visto questo tema nella storia! Oggi, con il drammatico calo demografico in tanti stati occidentali, ne sperimentiamo una molto angosciosa: il bambino, fin dal concepimento, bussa alle porte del nostro mondo e quanti aborti. A ragione deploriamo di continuo il fatto che l’ambiente in cui viviamo sia diventato ostile ai bambini, che rifiuti al bambino lo spazio interiore ed esteriore in cui questi potrebbe realizzare la propria esistenza nella libertà e nella gioia.
Il bambino bussa. Questa ricerca d’asilo va ancora più in profondità. Non esiste soltanto l’ambiente ostile ai bambini, prima di questo c’è anche il fatto che al bambino è chiusa la porta attraverso la quale potrebbe accedere a questo mondo, che si dice non abbia più posto per lui. Ogni bambino nel suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino cioè persona è visto come una specie di pericolo o come un incidente da evitare. L’arte del chiudergli la porta in faccia è considerata un postulato dell’illuminismo e di una mentalità libera da pregiudizi. Spesso calpestare la vita che più di tutte è indifesa, quella che ancora non è nata, sembra non essere neppure più una trasgressione veniale,  ma soltanto un parametro dell’emancipazione. Nel modo secolare di pensare di questo nostro tempo – ma, purtroppo anche nel nostro modo di pensare senza esserne completamente coscienti –il bambino appare come colui che fa concorrenza alla nostra libertà, come colui che fa concorrenza al nostro futuro, che ci porta via il posto. Riempiamo lo spazio della nostra vita di oggetti e di prodotti e non riusciamo mai ad avene  abbastanza di cose che programmiamo e poi possiamo anche buttare via. Tutt’al più abbiamo posto per un animale che si adatti ai nostri capricci. Ma non abbiamo posto per una nuova libertà, per una nuova volontà  che entra  nella nostra vita e che non possiamo programmare e governare  nel suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino che pure si è fatto bambino: per noi sarebbe troppo gravoso. Vogliamo soltanto ciò che si può programmare, il prodotto, le cose che siamo in grado di fare e che poi possiamo anche buttare via. Il bambino unito a Gesù bambino bussa. Se lo accogliessimo consapevoli che è come accogliessimo Lui, dovremmo rivedere radicalmente il nostro rapporto con la vita, dovremmo essere disposti a non approfittare di essa soltanto a nostro vantaggio, dovremmo smetterla di ritenerla soltanto un’opportunità utile a ricavare qualcosa da ciò che le circostanze ci offrono. Dovremmo invece viverla e considerarla da persone come un dono per gli altri. Dovremmo imparare a vedere in ogni bambino, nella nuova libertà di un altro essere umano che nasce alla vita, non la distruzione della nostra libertà ma un’occasione che le viene offerta, non il concorrente che ci toglie il futuro e lo spazio vitale ma la forza procreativa che dà la propria impronta al futuro e lo porta in sé per la vita veramente vita, per l’eternità. Possiamo dire di avere a che fare con qualcosa di molto profondo a seconda del modo in cui in ultima analisi intendiamo l’essere uomini come ci ha rivelato Dio che ha assunto un volto umano: se dal punto di vista di un terribile egoismo che si sente perennemente minacciato, oppure quello di una libertà personale fiduciosa che accoglie e sa accogliere un’altra libertà, perché sa che in fondo ogni uomo è sorretto da Dio, amato da Lui fino al perdono ed è pertanto chiamato alla comunione dell’amore e della libertà del vivere insieme come anticipo del paradiso fuori dello spazio e del tempo.
Ricerca di asilo. Stiamo vivendo il problema di profughi e immigrati, un problema non ancora culturalmente e politicamente risolto in modo giusto, equilibrato. Ma la questione ci riguarda tutti a Natale. E come i locandieri di Betlemme avevano certamente buoni motivi per dire a quella coppia di coniugi che non c’era più posto per loro, così anche noi troveremo di sicuro motivi plausibili per negarci all’amore intelligente. Dove la persona è accolta e bene accetta nelle proprie possibilità e identità, essa diventa una forza della creatività, della speranza e dell’amore, invece dove essa è respinta produce un’intossicazione dalle proporzioni sempre più oggi devastanti: Dio bussa!

Messa del giorno: “Abbiamo visto la sua gloria”
Nel Vangelo della terza messa di Natale che abbiamo ascoltato, quello che di amabile e familiare si trova nella nascita di Gesù Cristo nella stalla di Betlemme sembra essersi allontanato nell’ignota dimensione del mistero, del sacramento che rimanda a Dio che ha assunto un volto umano di bambino in una famiglia. In questo Vangelo di Giovanni non si parla del bambino e della mamma che lo avvolge in fasce deponendolo in una mangiatoia, dei pastori, delle loro pecore e del canto degli angeli che annunciano agli uomini la pace grazia, l’amore, la gloria di Dio. Tuttavia esso ha delle cose in comune con gli altri vangeli: anche quello di oggi parla della luce che risplende nelle tenebre. Parla della gloria di Dio che possiamo vedere come grazia nella Parola, nel Verbo del Padre che si è fatto carne rivelandoci chi è Dio e chi ogni uomo, e parla del Signore  che non è stato accolto nella sua proprietà, ma quelli che l’hanno accolto…Tra quelle espressioni grandi e misteriose compare a un tratto la stalla nella quale dovette nascere il figlio di Davide, poiché nella sua città non c’era posto per lui: Dio ha creato l’uomo libero accettando il rischio del rifiuto perché senza libertà non c’è possibilità di una risposta all’amore che Dio, che è l’Amore, si attende.
Così un ascolto più attento può farci ben comprendere che il Vangelo di oggi dice le stesse cose dette da quello della Notte Santa e che tutti i vangeli annunciano soltanto un unico Vangelo. Solo che affrontano la questione da punti di vista differenti. Luca – così Matteo – narra la storia terrena e a partire da essa apre la via che porta all’agire misterioso di Dio. Giovanni, l’Aquila, vede tutta la vicenda a partire dal mistero, dal sacramento di Dio e dimostra come questo mistero arrivi fino alla stalla, fino alla carne e al sangue dell’uomo, fino al bambino. Di che cosa dunque si tratta in realtà? Che cosa vuol dirci d’importante la Chiesa per il giorno di Natale, liturgicamente in otto giorni come fosse un unico giorno, e partire da esso per tutto l’anno, anzi per la nostra vita come singoli e come umanità, quando ci presenta questo testo solenne e severo, mentre noi ci saremmo aspettati le parole appassionate della storia della nascita? Un testo che prima della riforma liturgica del 1969 si leggeva a conclusione di ogni messa.
Questo Vangelo fa parte fin dai tempi più antichi della liturgia natalizia, perché contiene la frase che costituisce il fondamento della nostra fede – il sacerdote la leggeva inginocchiandosi -, l’autentico significato della liturgia natalizia: “Il Verbo si è fatto carne e ha preso dimora fra noi”.  A Natale non celebriamo il giorno della nascita di un personaggio importante come ce ne sono molti. E neppure celebriamo semplicemente il mistero di essere bambini. Certo, quello che in ogni bambino c’è di fresco, puro e schietto come unico essere dono del Donatore divino ci lascia sperare. Ci dà il coraggio di fare affidamento su nuove possibilità dell’uomo. Ma se ci aggrappiamo troppo soltanto a questo, al nuovo inizio della vita del bambino, alla fine potrebbe restarci in mano nient’altro che tristezza: anche questa novità verrà logorata. Anche il bambino entrerà nella competizione della vita, avrà parte nei compromessi e nelle umiliazioni che quella competizione impone e alla fine diverrà preda della morte, di finire biologicamente in polvere come tutti noi. Se non avessimo da celebrare altro che il semplice idillio della nascita e dell’essere bambini, alla fine non ci rimarrà neppure più quell’idillio. Non ci resterà altro che l’eterno morire e divenire, e ci si potrebbe chiedere se lo stesso nascere non sia di per sé qualcosa di triste, visto che porta soltanto alla morte. Per questo è tanto importante che con il Natale sia avvenuto qualcosa di più: il Verbo del Padre nello Spirito Santo, la Via, la Verità, la Vita si è fatto carne assumendo un volto umano come noi. “Questo bambino è figlio di Dio” dice uno dei più bei canti. Ciò che è inaudito, ciò che è impensabile  e tuttavia sempre atteso nel cuore di ogni uomo, ciò che è necessario è accaduto: Dio è venuto e viene tra noi. Si è unito e si unisce ad ogni uomo in maniera così inseparabile da far sì che quest’uomo sia veramente Dio da Dio, luce da luce, vero uomo. Il significato eterno del mondo è giunto a noi in maniera così autentica che lo possiamo toccare, osservare, stringere. Perché ciò che Giovanni chiama “il Verbo” in greco significa anche “il senso”. Quindi potremmo senz’altro tradurre l’espressione di Giovanni dicendo: “il senso, la ragione di tutto quello che esiste, si è fatto carne”. Ma questo senso non è semplicemente un’idea generica che si introduce nel mondo. Il senso è rivolto a noi. Il senso è una parola, ci chiama, ci guida, lo sentiamo come un bene, anzi il bene e ci rende coscienti della vita come persone. Il senso non è una legge vaga nella quale noi abbiamo una parte pur chicchessia. E’ riservato a ciascuno in modo del tutto personale. E’ esso stesso persona divina in una natura umana: il figlio del Dio vivente nato nella stalla di Betlemme.
A molti, in qualche modo a noi tutti, queste cose ci sembrano troppo belle per essere vere. Qui ci viene detto: sì, c’è un senso in tutto quello che accade nella vita, nella storia. Ma il senso non è un ribellarsi impotente a ciò che è insensato. Il senso ha una sua forza. Esso è Dio. E Dio si è rivelato vicino, buono con tutti. Dio non è un qualunque essere supremo fondamento di ciò che viene all’esistenza ma staccato, lontano da noi, che non riusciamo mai ad avvicinare, inutile pregarlo come dicono i filosofi greci. E’ vicinissimo, a portata di voce, sempre raggiungibile. Ha tempo per me, tanto tempo da essersi coricato nella mangiatoia e da essere rimasto per sempre, anche da risorto, asceso al cielo, uomo, umano. Noi continuiamo a chiederci: è possibile una cosa del genere? E’ possibile che Dio sia un bambino, oggi che si fa presente nel sacramento? Siamo tentati a non voler credere che la verità, la realtà in tutti gli ambiti, è bella. In base alla nostra esperienza alla fine la verità il più delle volte sembra crudele e sporca. E quando per una volta non sembra essere così, allora ci mettiamo a scavare fino a che non vediamo confermati i nostri sospetti. Una volta è stato detto dell’arte religiosa che è al servizio del bello, e che il bello a sua volta è splendore di verità, la sua luce interiore. Ma oggi l’arte secolarizzata il più delle. volte ritiene che il suo compito più alto sia quello di smascherare l’uomo come essere immondo e disgustoso. Se pensiamo ai drammi di Bertolt Brecht, ci accorgiamo che anche in essi tutto il genio del poeta è teso a svelare la verità, ma non più per mostrarne la luce, bensì per dimostrarne che la verità è sporca, che la sporcizia è la verità. L’incontro con la verità non nobilita più, anzi degrada. Da ciò il dileggio sul Natale, la derisione della nostra gioia. E in effetti, se Dio non esiste, se in Gesù non lo senti sempre vicino, non c’è alcuna luce, c’è solo terra sporca, esperienze sporche. In questo consiste la verità, la realtà davvero tragica di una simile “poesia”.
“I suoi non lo accolsero”: in fondo rischiamo di preferire la nostra caparbia disperazione alla bontà di Dio, che fin dai tempi di Betlemme con la Nuova Storia di amore, la Nuova Alleanza vorrebbe toccare il nostro cuore con rapporti concreti di amore come nell’amicizia. In fondo rischiamo di essere troppo orgogliosi, con tante pretese per lasciarci salvare. “I suoi non lo accolsero”: la tragedia rappresentata da questa frase non si esaurisce nella storia della ricerca di un ricovero, che le nostre recite natalizie continuano a richiamare alla memoria con tanta tenerezza. E neppure si esaurisce nell’appello a pensare ai senza tetto che ci sono nel mondo, per quanto importante questo richiamo possa essere.
Ma questa frase tocca qualcosa di più profondo che c’è in noi, la ragione più vera per cui la terra non offre rifugio a tanta gente, tanti affamati di fronte allo sperpero di molti: la nostra superbia chiude le porte a Dio e quindi anche agli uomini. Siamo troppo superbi per vedere Dio e quindi per amare fraternamente. Ci succede la stessa cosa che è successa ad Erode e ai suoi esperti in teologia: a quel livello non si sentono più cantare gli angeli. A quel livello non si vuole più essere “la sua proprietà”, la proprietà di Dio, ma si vuole appartenere a se stessi erigendo sul piano della prassi la libertà individuale a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare e così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica. E’ per questo che non possiamo accogliere colui che è venuto bambino e viene sacramentalmente nella sua proprietà, tra i suoi; per farlo dovremmo cambiare, dovremmo riconoscerlo come padrone.
Egli è venuto come un bambino e continua a venire sacramentalmente per vincere la nostra superbia e Satana che la suscita facendoci soccombere. Forse ci saremmo arresi più facilmente di fronte alla potenza, di fronte alla saggezza. Ma egli non vuole la nostra resa subita, vuole la nostra risposta libera, il nostro amore. Vuole liberarci dalla nostra superbia e renderci così veramente liberi e quindi capaci di essere amati e di amare. Lasciamo dunque che momenti di gioia di questo giorno pervada la nostra anima. Non è un’illusione. E’ la verità. Perché la verità – la più alta nel bambino di Betlemme, la più autentica nella presenza sacramentale –è bella. Ed è buona. Incontrarla fa bene agli uomini di buona volontà. La verità parla con le parole del bambino che è Figlio di Dio, con i gesti sacramentali, ecclesiali del Risorto.
L’ultima frase del nostro Vangelo dice: “Abbiamo visto la sua gloria”. Potrebbero essere le parole dei pastori che tornano a casa dalla stalla e riassumono quello che hanno vissuto. Potrebbero essere le parole con cui Maria e Giuseppe descrivono ciò che ricordano della notte di Betlemme. Nel nostro testo è lo sguardo retrospettivo dell’apostolo che dice quello che gli è successo nell’incontro con Gesù. E in effetti noi tutti in quanto cristiani immacolati perché perdonati nella confessione e comunicati nella comunione con Lui e tra noi potremmo pronunciare quella frase: “Abbiamo visto la sua gloria”. Sì, partendo da questo, si potrebbe addirittura spiegare che cosa significhi credere di vedere la sua gloria in questo mondo nel momento attuale. Colui che crede vede. Ma noi abbiamo visto? Non siamo forse rimasti ciechi? Non vediamo sempre soltanto noi stessi, la nostra immagine speculare nella solitudine che anticipa l’inferno? Al di fuori di sé, ognuno di noi non vede soltanto che in lui esiste già, qualcosa di conferme a sé.
Lasciamoci aprire gli occhi dal mistero di questo giorno, lasciamo che esso ci renda capaci di vedere la realtà in tutti gli ambiti cioè la verità che libera e dà la possibilità di sentirsi amati e di amare e quindi pieni di gioia. Allora vivremo anche noi non da individui soli ma come persone che vedono, che non pensano solo a se stesse, non indifferenti ai bisogni di persone che incontrano. Così anche noi potremo diventare portatori della luce che viene da Betlemme. Per poi pregare pieni di fiducia: venga il tuo regno. Venga la tua luce. Venga la tua gioia. 

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