Il realismo biblico

di Giovanni Cavalcoli
Alcuni Papi dei secoli XIX e XX, come Leone XIII, S. Pio X. Pio XI  e Pio XII nell’enciclica Humani Generis, nel raccomandare il pensiero di S. Tommaso sottolineano in modo speciale quello che è stato chiamato “realismo”, come modo di concepire la conoscenza e la verità, in opposizione all’“idealismo” come errore contrario.
Benché la Bibbia non ci dia una definizione della conoscenza e della verità, né entri in polemica con false concezioni
opposte, non ci vuole molto a capire quanto avere le idee giuste su questi temi sia importante ai fini della retta fede cattolica, la quale, come dice Cristo stesso, è “conoscenza della verità” (Gv 8,32).
Ora, compito primario del Magistero della Chiesa è certamente quello di proporci, interpretarci e spiegarci gli insegnamenti di Gesù Cristo, il quale, come sappiamo bene, tanto insiste sulla verità di quello che dice, tanto tiene a che noi conosciamo la verità, che si presenta Egli stesso come la Verità, e si mostra nemico della menzogna, della falsità, della doppiezza e dell’ipocrisia. Gesù ci comunica delle verità soprannaturali, divine, che devono essere oggetto della nostra fede.
La Chiesa pertanto non assolverebbe adeguatamente il suo compito affidatole da Cristo, anzi non potrebbe neppure svolgerlo, se, oltre ad occuparsi delle verità rivelate, non garantisse in modo infallibile, sempre assistita dallo Spirito Santo, quelle nozioni basilari del pensiero umano naturale o razionale, senza le quali il rationabile - loghikòn - obsequium della fede (Rm 12,1) sarebbe impossibile, un po’ come chi possiede una casa o una villa in campagna, non può limitarsi alla cura del domicilio, ma deve ben garantire le vie di accesso e un adeguato sistema di recinzione o protezione, magari col cane da guardia. 
Per questo, la Chiesa ha avuto sempre somma cura di garantire o di indicare agli uomini una sana filosofia e una ragione sana e ben funzionante, approvando e indicando i maestri in questo campo, perché non c’è nulla che maggiormente metta in pericolo la fede, come avverte S. Paolo (Col 2,8), che una falsa filosofia o una ragione maestra di sofismi o irretita negli errori.
Così similmente la Chiesa non si limita predicare i precetti della morale soprannaturale ricavata dal Vangelo, ma, ben sapendo che la carità non è possibile senza la giustizia, sempre si adopera per insegnare agli uomini anche le esigenze fondamentali della giustizia e della legge morale naturale, a costo di sembrare che s’intrometta nelle faccende della politica, che di per sé non la riguardano. 
Così la Chiesa, quando lo ritiene utile o necessario, ci interpreta e ci spiega verità divine con linguaggio e concetti desunti dall’umana cultura, non esplicitamente contenuti nella Sacra Scrittura e tuttavia utili o necessari a suo giudizio per comprenderla: sono i dogmi, definiti eventualmente in forma solenne nel corso della storia o dai Sommi Pontefici o dai Concili Ecumenici. La definizione di nuovo dogma è un evento straordinario e raro, ma ordinariamente e quotidianamente la Chiesa insegna a tutto il mondo quelle verità evangeliche, che ormai sono state chiarite da un tempo più o meno lungo o sono chiare per se stesse.
Un nuovo dogma o una nuova dottrina proposti dalla Chiesa non aggiungono nulla al dato rivelato, che Cristo ha consegnato agli apostoli, ma costituiscono una conoscenza migliore, più chiara o più approfondita della medesima verità divina ed immutabile, che Cristo ha incaricato agli apostoli di insegnare a tutto il mondo fino alla fine dei secoli. 
Nel patrimonio della fede ci sono verità immutabili di ordine speculativo, per esempio la SS. Trinità, o morale, per esempio la virtù della carità o i doni dello Spirito, e verità di ordine storico, quindi mutevoli, per esempio l’esistenza di Ponzio Pilato, la nascita temporale di Cristo o il fatto storico dell’Incarnazione, fatti o cose avvenuti nel passato, oppure previste nel futuro, come la fine del mondo, la risurrezione dei morti e il giudizio universale. Tuttavia resta immutabilmente vero che esiste la SS. Trinità e che quei fatti storici sono immutabilmente veri. In tal senso tutte le verità della divina rivelazione sono immutabili.
La Chiesa quindi non propone nuove verità, ma conosce e fa conoscere sempre meglio le medesime verità uscite dalla bocca di Cristo. La novità nel sapere di fede proposta per esempio da un Concilio non riguarda i contenuti, ma il nostro modo sempre più progredito di conoscerli. 
Questo è il progresso dogmatico, corrispondente a una funzione naturale dell’umano modo di conoscere la verità, per il quale la mente umana allarga sempre di più i confini delle proprie conoscenze, gradualmente e laboriosamente, nel corso del tempo e con l’uso di mezzi come l’apprendimento, l’interpretazione, l’esperienza e il ragionamento, che comportano per se stessi un mutare e un divenire, legati come sono ai nostri sensi, alla nostra corporeità e alle condizioni storico-spaziali della nostra vita. 
Progresso dogmatico quindi non vuol dire che possa non esser più vero oggi ciò che un tempo si riteneva vero o viceversa, ma, al contrario, vuol dire che concepiamo con maggior forza e chiarezza quelle medesime verità che abbiamo sempre saputo. La smentita può avvenire per una caduca opinione, ma il dogma è assoluta e immutabile certezza.
La Chiesa è dunque custode della verità divina rivelata da Cristo. Ma potrebbe essa svolgere questo arduo compito se non esistesse la verità? Se non si potesse sapere che cos’è la verità? Se non ci si potesse opporre a concezioni false della verità? No certamente. Quindi è vero che Cristo non ha esplicitamente incaricato la Chiesa di insegnare al mondo che cosa è la verità e di contrastare le concezioni errate della verità, tuttavia, poiché la Chiesa non potrebbe svolgere la sua missione se non fosse risolta la questione della verità, per questo la Chiesa si preoccupa anche di approvare, confermare, difendere e promuovere la vera concezione della verità opponendosi agli errori contrari. Per questo la Chiesa sostiene il realismo e si oppone all’idealismo.
Ma che cos’è il realismo? E che cosa è l’idealismo? Nel linguaggio della Chiesa, il realismo è quella concezione della conoscenza e della verità, per la quale le nostre idee (giudizi) sono vere, se sono conformi al reale, adaequatio intellectus ad rem, mentre per l’idealismo è il reale (essere) che dipende dall’idea (pensiero). Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco riassume il principio del realismo con una frase lapidaria: “La realtà è più importante dell’idea” (nn. 231-233). La Bibbia professa e insegna il realismo ed è contraria all’idealismo. Da che cosa lo ricaviamo? Essa non parla mai né di realismo né d’idealismo, è vero. Ma non è difficile trovare dove essa fa riferimento a queste due concezioni della conoscenza. 
Il realismo nella Scrittura è implicitamente lodato e raccomandato nelle virtù dell’umiltà, della mitezza, dell’infanzia evangelica, della docilità, dell’ascolto e dell’obbedienza, mentre si riferisce all’idealismo quando condanna la superbia, la presunzione, il cuore indurito, l’impenitenza, la disobbedienza, la ribellione, la prepotenza, la tracotanza e l’arroganza. In morale il realismo porta a obbedire a Dio, mentre l’idealismo conduce all’attaccamento a se stessi.
L’idealismo a cui qui dobbiamo pensare certo non è quell’idealismo che ci fa parlare di un “idealista” per dire un amante dell’ideale, ma ci riferiamo a quell’idealismo che fiorì nella filosofia tedesca del secolo XIX, il cosiddetto “idealismo trascendentale”, detto anche “immanentismo”, condannato per esempio da Pio XII e da S. Pio X.
Il realista sa di esser fallibile, perché sa di non essere la fonte e la regola della verità, ma di dover adeguarsi al reale, per cui è pronto a riconoscere quando si è allontanato dalla realtà. L’idealista viceversa si ritiene infallibile, perchè crede di esser lui col suo cogito il principio della verità, per cui non ammette una regola del vero al di fuori o al di sopra di sé. Volendo fare un collegamento con la famosa parabola del fariseo e del pubblicano, al primo corrisponde l’idealista, al secondo il realista.
Inoltre, per la Bibbia è il Pensiero o Logos divino che progetta il reale e Dio lo pone in essere con un atto della volontà, dal che la contingenza della creazione. “Dio disse: Sia la luce! E la luce fu” (Gen 1,3). Per mezzo del Logos “niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Come dice S. Paolo, “Dio chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rm 4,18). Fa essere reale il possibile, che, come tale, non è nulla di reale. Questo vuol dire creare “dal nulla”.
Il pensiero umano presuppone invece l’esistenza del reale fuori di lui, indipendente da lui, prima di lui, perchè non l’ha creato lui, ma l’ha creato Dio. Il pensiero umano può produrre il pensiero, può produrre delle idee, ma non l’essere dal nulla o al massimo l’uomo trasforma nella prassi un ente preesistente. 
L’idealista invece si illude di poter produrre l’essere perchè riduce l’essere al pensiero o al pensato, esse est percipi, come diceva Berkeley. Ma così egli pretende di assimilarsi a Dio creatore e non si accorge della follia di tale pretesa. Qui sta uno dei motivi che impongono di distinguere, come fa il realista, fra l’essere e l’essere pensato, confutando l’idealismo, per non dare all’uomo un potere creatore che solo Dio possiede.
Quindi il realismo biblico e la connessa condanna dell’idealismo sono collegati al concetto della creazione e alla differenza fra il sapere umano e la sapienza divina, nozioni queste, come tutti sanno, fondamentali della Sacra Scrittura. Partendo quindi da questi concetti, è facilissimo comprendere come la Bibbia sia per il realismo e contro l’idealismo, nel significato del termine che ho detto.
Bisogna inoltre considerare che mentre il realismo conduce al teismo e alla religione, quindi alla fede ed alla virtù, l’idealismo porta al panteismo, e quindi alla superstizione, all’empietà ed al vizio. Infatti, il realismo tiene conto del modo umano di giungere alla conoscenza di Dio, modo umano che comporta come punto di partenza della conoscenza l’esperienza sensibile delle cose visibili esterne e la coscienza del proprio io - ea quae facta sunt (Rm 1,19-20) -, al che segue che le perfezioni invisibili di Dio - invisibilia Dei - vengono da noi contemplate - conspiciuntur - per analogia (cf. Sap. 13,5) per mezzo dell’intelletto - intellecta -, che applica il principio di causalità, come insegna S. Pio X nel Motu proprio Sacrorum Antistitum contro il modernismo, tamquam causam per effectum (Denz. 3538).
Viceversa, nell’idealismo il punto di partenza del sapere è in vari modi esageratamente pretenzioso, come se l’intelletto umano fosse quello di un angelo, dispensato dall’uso dei sensi, come abbiamo nella gnoseologia di Cartesio, di Spinoza, di Berkeley e di Leibniz, dove il sapere parte dall’autocoscienza umana (cogito) o addirittura s’identifica con lo stesso sapere divino, come in Fichte e Schelling, i quali partono dall’autocoscienza intesa come Io o Soggetto assoluto o come in Hegel e Gentile, per i quali l’autocoscienza parte dal concetto dell’essere assoluto o come in Gioberti e negli ontologisti, per i quali parte dall’intuizione dell’essere assoluto, o come in Bontadini e Severino, per i quali  parte dalla coscienza dell’essere uno e necessario (“unità dell’esperienza”), o come in Husserl, il quale parte dalla visione (Anschauung) dell’essere fenomenologico come “correlato della coscienza”, “costituito” dalla coscienza o come in  Heidegger e Rahner, per i quali si parte dall’esperienza atematica e preconcettuale (Vorgriff) dell’essere identico al pensiero, il che è come dire dall’esperienza di Dio, dato che solo in Dio l’essere si identifica col pensiero.
Tutti costoro partono da Dio come oggetto del cogito, sotto le sembianze dell’essere identificato col pensiero. Invece di partire dalle cose, dimenticano che è solo Dio che parte da Se stesso, perché Egli solo è Autocoscienza assoluta ed esiste prima del mondo che Egli stesso crea.
 Noi invece veniamo dal nulla creati da Dio in un mondo quindi che esiste già prima e fuori di noi e indipendentemente da noi, per cui il nostro sapere, che acquistiamo faticosamente, gradualmente e fallibilmente a partire dall’esperienza sensibile, non ha facoltà nè di porre il mondo, né di porre noi stessi,  né tanto meno di porre Dio, ma, sulla base del mondo già esistente, parte dal mondo, prende coscienza di sè e si eleva a Dio.
La realtà mondana certo, parte da Dio, che ne è la causa prima ed è il principio ontologico di tutto, e arriva a Dio come suo fine ultimo e in quanto Egli ne é il creatore e da Lui essa deriva. Ma la nostra conoscenza, che al nostro nascere è solo in potenza, passa all’atto partendo delle cose e giunge a Dio laboriosamente e non senza errori, applicando il principio di causalità. Senonchè gli idealisti, - questo appare in modo chiarissimo in Gioberti - confondendo il processo dell’essere con quello della nostra conoscenza, identificano i due processi come fossero uno solo, col risultato di illudere l’uomo di possedere un sapere creatore, regolatore dell’essere, del vero e del bene alla pari di Dio. È la pretesa di porsi alle origini assolute dell’essere e di “conoscere il bene e il male”, secondo la falsa promessa del serpente genesiaco.
Si capisce allora che una visione gnoseologica del genere è quanto di più opposto si possa concepire all’idea biblica del sapere umano, il quale non si regola su stesso, ma sulla verità delle cose e sopratutto sulla verità della Parola di Dio e sulla sua volontà. Per la Bibbia, la pretesa dell’uomo di esser fonte e regola originaria del reale, della verità e del bene sì da poter salire al cielo da sé costruendo la torre di Babele, è una superbia e un’arroganza intollerabile, quella che anche la Grecia conosce sotto il nome di hybris - vedi il mito di Icaro e di Prometeo - meritevole dei più severi castighi divini.
La Bibbia riconosce l’altissima dignità dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, capace quindi di ricostruire intenzionalmente e rappresentativamente nel suo pensiero il mondo intero e di farsi un concetto di Dio, sì da collaborare alla sua opera creatrice, ma gli ricorda anche la sua condizione di peccatore e pone nel contempo dei limiti ontologici e morali invalicabili, tolti i quali l’uomo non si innalzerebbe ma sarebbe perduto. L’uomo ha certo sete di Infinito, ma in se stesso è finito, per cui è solo finitamente che può godere del possesso dell’Infinito.
L’uomo, per la Bibbia, può bensì raggiungere grazie alla fede, un sapere divino, il pensiero di Cristo, può raggiungere nella grazia una vita divina, ma solo per partecipazione e per analogia sulla base del previo e fondamentale sapere della ragione, che nella fede non viene smentito o annullato, ma perfezionato, purificato e superato, così da consentire all’uomo di realizzare una superiore somiglianza divina in Cristo, che si aggiunge al suo essere naturale e creaturale originario
Anche sul piano del sapere di fede resta sempre più che mai l’esigenza della verità, e quindi del realismo, la regola della adaequatio intellectus ad rem, con la differenza soltanto che qui la res è il mistero rivelato, è la verità divina, è il dogma della fede; da qui il rigetto assoluto del modo di pensare idealistico, per il quale la mente umana si gonfia di quel tumor superbiae, che, sotto pretesto della dignità del pensiero e della coscienza, della verità e della libertà, porta l’uomo alla rovina.

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