In cammino con Tolkien 11

“Bilbo era a un punto cruciale della sua vita, ma non lo sapeva. Si mise in tasca l’anello quasi senza pensarci”

di Fabio Trevisan
Tolkien ci ha raccontato la paura di Bilbo Baggins che, nello sfuggire ai terribili Orchi, era caduto in un tunnel misterioso e oscuro e aveva iniziato a conoscere da vicino la tentazione del male, da solo, nelle tenebre: “Bilbo si sedette sul pavimento freddo abbandonandosi alla più completa disperazione”. Egli fu rinfrancato dall’aver ritrovato, cercando
a tastoni nel buio, un po’ di bene, ciò a cui era affezionato e che pensava di dover rinunciare: la sua cara pipa e un po’ di tabacco. Anche la spada che aveva sottratto agli stolidi Uomini Neri riluceva pallida e offuscata davanti ai suoi occhi e anche questo lo rincuorava: era una lama forgiata a Gondolin per le guerre contro gli Orchi. Tolkien quindi ci ha fatto gustare lo spirito di un sano Hobbit, Bilbo Baggins, cioè di colui che sa rimettersi (potremmo dire “cristianamente in piedi”) dopo una rovinosa caduta: “Gli Hobbit si possono muovere molto silenziosamente. E rimettersi in modo fantastico da cadute e contusioni”. Rimane davvero straordinaria la descrizione della caducità terrena, espressa nell’assenza di luce, di aria: potremmo quasi dire che Tolkien ci ha fatto intravedere (e temere) un anticipo di inferno; il tutto contrapposto alle caverne arieggiate, semplici e colorate degli Hobbit. In questo tetro luogo, viscido e umido, Bilbo poteva ora incontrare un suo simile, uno Hobbit degenerato e guastato dal peccato e dal fascino iniquo dell’anello: Gollum. Tolkien ha voluto farci notare (anche fisicamente) la devastazione del peccato: “Qui, nel profondo, presso l’acqua scura, viveva il vecchio Gollum, un essere piccolo e viscido, scuro come l’oscurità stessa, eccezion fatta per due grandi occhi rotondi e pallidi nel viso scarno”. Mi sono sempre chiesto perché Tolkien, dinanzi alla vecchiaia ed al marciume di Gollum, ha voluto farci osservare la bellezza dei suoi due occhi grandi e rotondi? Credo semplicemente perché cogliessimo la bellezza originaria di una creatura deturpata dal peccato e perché potessimo sfuggire alla tentazione dell’anello del potere e del Maligno. Com’era stato possibile cadere così in basso? Com’era possibile che con questi begli occhi, fatti per contemplare il cielo ed il creato, si guardasse alle sole cose terrene, alle illusioni di un potere fittizio che trascinava verso il baratro della perdizione eterna? Ecco cosa rappresentava Gollum agli occhi di Tolkien: la deformazione orribile fisica e spirituale del peccato. Gollum era stato bello agli occhi del Creatore e quegli occhi, a immagine divina, attestavano che Dio fece ogni cosa bella ma anche che il Maligno avrebbe potuto sciupare quel meraviglioso disegno originario. Rimaneva un barlume di luce in Gollum, una fievole fiammella di speranza che talvolta traluceva in quelle tenebre dello spirito: qualcosa a cui un semplice e umile Hobbit, come Bilbo prima e come Frodo poi, sembravano appellarsi. Gollum, uno Hobbit come loro, corrotto a tal punto da non esistere che per se stesso e per quel terrificante anello che Bilbo, inconsapevolmente, si era messo in tasca. L’incedere ingobbito e a carponi di Gollum sintetizzava lo strisciare del serpente, così come i sussurri e i sibili con tante “s” sibilline: “Che cosa sssarà, tesssoro mio?”. Il traviamento morale e spirituale di Gollum era condensato da Tolkien nelle espressioni mascherate del bene: “Benedicici e aspergici, tesssoro mio!”. Questa era l’amara vita di Gollum e ciò che aveva riservato per lui l’anello, portandolo alla dannazione. Da buon cattolico, Tolkien ha voluto riproporci quel brano evangelico : “Dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore” perché ne verificassimo, nella condizione di Gollum, l’esattezza. Rimanga da monito anche ai nostri giorni quanto l’aver sostituito “Dio Uno e Trino” con il “dio quattrino” abbia portato a tali miserevoli scenari. A quel vero tesoro dell’amore divino non possiamo anteporre alcun anello, alcun tesssoro!

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