Il catto-laicismo minaccia la Chiesa

“Il catto-laicismo minaccia la Chiesa…Un fenomeno gravissimo caratterizza la Chiesa del nostro tempo: il cedimento totale alla mentalità catto-laicista, anche perché stiamo accettando che siano i mass media laicisti a definire l’immagine della Chiesa, del prete, di una autentica pastoralità” (mons. Luigi Negri)

Nel festeggiare il X anniversario della sua ordinazione episcopale monsignor Luigi Negri ha concesso a Riccardo Cascioli della Bussola Quotidiana del 09-05-2015 un giudizio affermando che molto è cambiato in questi dieci anni: nella Chiesa, in Italia, nel mondo.
Monsignor Negri, lei è stato nominato vescovo di San Marino-Montefeltro il 17 marzo del 2005, una delle ultime nomine di san Giovanni Paolo II, morto appena 16 giorni
dopo. In questi dieci anni ha perciò conosciuto ben tre Papi. Potrebbe dirci il tratto essenziale di ciascuno dei tre? Cominciamo da san Giovanni Paolo II.
San Giovanni Paolo II è stato uno dei più grandi evangelizzatori nella storia della Chiesa moderna e contemporanea. Con lui ho avuto la percezione lucidissima che si apriva una fase nuova nel rapporto tra Chiesa e mondo. Voglio ricordare lo straordinario intervento che fece nell’ottobre 1980 al convegno su Evangelizzazione e ateismo in cui disse che bisognava riportare Cristo a contatto del cuore dell’uomo, che usciva distrutto ma non annichilito dalla vicenda moderna e contemporanea. Capii allora che bisognava aprire un dialogo non con le ideologie o con i sistemi politici e culturali, ma con quella realtà umana che precede qualsiasi opzione, consapevole o inconsapevole. San Giovanni Paolo II ha svolto in maniera mirabile questo compito. Ho sempre avuto la percezione che parlasse al livello del cuore dell’uomo, e per questo non si attardasse né in premesse né in conseguenze. Al contrario, andava al fondo della questione, che così valorizza ogni premessa e arriva alle conseguenze. Fermarsi alle premesse o correre alle conseguenze è una proposta assolutamente perdente, dal punto di vista di ciò che la Chiesa deve desiderare: che la gente venga investita dall’annunzio di Cristo presente. Vorrei al proposito ricordare due definizioni che di lui sono state date e che condivido pienamente. Ho in mente il breve messaggio del cardinale Stanislaw Dziwisz in risposta alle mie condoglianze: «Quest’uomo ha insegnato ai cristiani ad essere cristiani e agli uomini di questo tempo ad essere uomini». E George Weigel ha riconosciuto che è stato uno dei pochi uomini a cui è stato dato di cambiare il corso della storia. 
Una missione a cui ha dato un grosso contributo l’amicizia con chi poi gli è succeduto: Benedetto XVI. 
Benedetto ha aperto una stagione che ha fatto riscoprire il fascino della ragione, come sfida, come cammino verso il mistero. E senza nessuna tentazione di nostalgia ci ha fatto sentire la grandezza della grande civiltà cattolica, della grande civiltà occidentale che - come disse a Regensburg – nasce dal coinvolgimento di movimenti perenni, che tali rimangono: il domandare greco, il profetismo ebraico, la fede cattolica e la libertà di coscienza moderna. Ha aperto orizzonti di incontro con l’uomo di oggi proprio in forza della sua straordinaria capacità di parlare della ragione e della fede, oltre ad avere dato quel contributo fondamentale alla ripresa di identità dell’avvenimento cristiano con la dichiarazione Dominus Iesus, firmata da Giovanni Paolo II ma che porta il segno indelebile del grande magistero di Benedetto XVI. Mi auguro davvero che la Chiesa a un certo punto riconosca la grandezza intellettuale e la grandezza del suo magistero conferendogli il titolo di dottore della Chiesa.
Da due anni c’è papa Francesco; ancora presto per un bilancio ma non c’è dubbio che la strada di questo pontificato sia ben marcata.
Francesco ha aperto una prospettiva nuova in cui mi addentro, gradualmente, maturando con lui le prospettive di una rinnovata apertura missionaria, che è quello a cui sono stato formato da 50 anni di convivenza con quel grande teorico della missione e testimone della missione che è stato don Luigi Giussani.
A proposito di don Giussani. Abbiamo da poco ricordato i dieci anni della sua morte, non ha fatto in tempo a gioire dell’ordinazione episcopale di uno dei suoi amici della prima ora. 
Ho potuto svolgere la missione di vescovo soltanto perché don Giussani mi ha insegnato ad amare la Chiesa come mio padre e mia madre. Quelle pochissime volte che me ne ha accennato, era evidente che per lui la mia nomina episcopale era un desiderio vivo del suo cuore, che allora io non sapevo valutare. Per lui era la grande conferma della verità del movimento di Comunione e Liberazione. In uno degli ultimi incontri mi disse: se ti faranno vescovo ricordati che sarà un grande messaggio del Papa a tutta la Chiesa. Perché tu nella tua vita, come insegnante e come prete, non hai avuto altro che la sequela del movimento. E l’aver seguito fino in fondo il movimento secondo il papa ti abilita a diventare il capo di una Chiesa.
E come questo si è riflesso nel suo modo di essere vescovo?
In questi dieci anni, di cui i primi sette a San Marino-Montefeltro, ho sentito il compito eccezionale di far nascere e rinascere continuamente il popolo cristiano. Perché il vescovo deve fare questo. Il vescovo che rende presente Cristo nella sua comunità deve generare il popolo nella Parola e nei sacramenti e rigenerarlo soprattutto attraverso il ministero del giudizio e della misericordia - perché nella Confessione c’è anche un giudizio non solo la misericordia –. E poi dare la consapevolezza gioiosa di avere un’identità nuova, irriducibile a qualsiasi identità umana e storica, una coscienza nuova di sé e della realtà, un ethos della vita che non si riduce a nessuna forma di sfruttamento, ma vive la carità come incondizionata apertura alla vita di ciascuno. Per il mio temperamento non sarei mai stato capace di abbracciare così il popolo, la sua vita e il suo destino, se non fossi vissuto per 50 anni con un uomo che ha fatto dell’amore a Cristo e alla Chiesa la sua unica ragione di vita.
San Marino e Ferrara, due realtà diverse ma anche con punti in comune. Dall’incontro con questa gente, cosa emerge quale priorità per la Chiesa?
Farsi carico della grande povertà non soltanto materiale ma umana, culturale, spirituale. L’ho detto più volte ai responsabili di diverse iniziative e strutture caritative, che pure sono grandi ed esemplari. A Ferrara tutte le nostre risorse sono spese per questa terribile povertà materiale che ha dissolto la tranquillità e il benessere di tante famiglie. Ma dobbiamo anche essere molto chiari: nonostante tanta retorica sui poveri e sulla povertà, questo problema non sarà mai risolto, meno che mai sarà risolto dalla Chiesa. Lo ha detto lo stesso Gesù: «I poveri li avrete sempre con voi, me non avrete sempre». 
E dando un contributo quotidiano, nel soccorrere chi vive nella povertà, dobbiamo chiederci: noi ci facciamo carico della povertà culturale? Povertà culturale che è figlia di un vuoto esistenziale, di un vuoto di coscienza, di umanità, di capacità di amore, di capacità di sacrificio. Se non stiamo attenti rischiamo di ridurci soltanto al tentativo di aiutare la povertà materiale, di condividere una concezione materialistica della vita. Io penso che sarebbe terribile non avere aperto il cuore ad amare l’umanità di oggi in tutte le condizioni, secondo tutti gli aspetti, secondo tutte le sfide che riceviamo. Ma si può fare questo se al centro c’è l’amore a Cristo. Si ama i poveri perché si ama Cristo, si investe l’umanità di oggi - povera o ricca che sia - dell’annuncio unico: il Signore Gesù Cristo è il redentore dell’uomo e della storia, il centro del cosmo e della storia. 
Povertà culturale. Il rapporto tra fede e cultura è stato al centro della riflessione di don Giussani e di Giovanni Paolo II. 
C’è una frase di san Giovanni Paolo II che ha confermato e dilatato il magistero di Giussani su fede e cultura: «La fede che non diventa cultura non è stata veramente accolta, pienamente vissuta, umanamente ripensata». Da questo punto di vista c’è una gravissimo disagio che io percepisco. L’irruzione nel contesto della cultura cattolica di una sorta di catto-laicismo. Un cattolicesimo che tenta di convivere con il laicismo come forma sostanzialmente di rifiuto della tradizione cristiana, della presenza cristiana. Esempio; la storia della Chiesa. È letta e interpretata quasi universalmente anche nel mondo cattolico, come una storia di cui liberarsi. Più piena di ombri ed errori, di colpe e incomprensioni, che di luci. Si tratta di un irrealismo totale, si salvano a malapena i santi, ma secondo una accezione moralistica e pietista che non è un onore ai santi, ma la dimostrazione della meschinità intellettuale con cui si pensa la storia della Chiesa.
Può fare qualche esempio?
Da qualche anno durante la messa prego ogni giorno per Antoine Eleonore Leon Leclerc de Juinier, che è stato vescovo di Parigi dal 1782 fino a quando per non piegarsi a Napoleone si dimise da arcivescovo. Andò all’assemblea costituente quando questa decretò la confisca di tutti i beni della Chiesa. Questo vescovo disse una cosa semplicissima: prendetevi pure tutti i soldi, avete l’arroganza di farlo e il diritto vostro ve ne dà la possibilità. Ma io vi anticipo quel che accadrà: nel giro di qualche mese vi dividerete fra voi tutti questi soldi a bassissimo prezzo e i poveri resteranno senza nessuna risorsa perché da secoli la Chiesa francese ha usato i suoi soldi, i suoi beni, per una cosa sola: rendere meno aspra la povertà dei poveri. C’è oggi qualcuno anche a livello ecclesiastico che non solo conosce questa cosa, ma si sentirebbe così in sintonia profonda con quest’uomo, perché in lui si è espressa una coscienza autentica e critica della storia della Chiesa? Non è accettabile che ecclesiastici, uomini di cultura cattolici, abbiano in partenza davanti alla Chiesa e alla sua storia un atteggiamento distruttivo. Salvando a malapena la Chiesa di oggi, come se la chiesa di oggi fosse nata o nascesse improvvisamente senza nessuna connessione vitale, esistenziale, con il flusso della tradizione, che comincia da Gesù e dei suoi amici e arriva inesorabilmente fino a noi oggi.
In altre occasioni lei ha parlato di catto-laicismo…
Non è pensabile, non è più sopportabile, che i media anticattolici, laicisti, siano stati messi in condizioni di entrare così massicciamente e grevemente nella vita della Chiesa da fissare loro l’immagine dei preti di prima categoria, da contrapporre al povero clero che ha vissuto l’esistenza secondo le circostanze concrete della propria vita, obbedendo ai propri pastori e cercando di incrementare la vita del popolo che guidavano. È una posizione suicida accettare che il modello della vita ecclesiale sia formulato secondo la posizione di coloro che fino ad adesso – e ancora adesso – vogliono la distruzione della Chiesa. 
In dieci anni tante cose sono cambiate nel mondo, oggi la persecuzione dei cristiani è un fenomeno senza precedenti:
Da quando ho fatto mettere sul frontone del palazzo episcopale il segno del Nazareno, quasi ogni giorno centinaia di turisti, si fermano, chiedono, la maggior parte non sa neanche cosa significhi. Comunque questa persecuzione ci ricorda che noi viviamo dentro un confronto escatologico fra la cultura della vita – l’avvenimento di Cristo -  e la cultura della morte, che è il nulla, che diventa l’alternativa a Dio.
Queste sono le proporzioni dello scontro in cui viviamo, dobbiamo essere consapevoli che la dimensione del martirio morde il nostro quotidiano. Dobbiamo sapere che quello che è in gioco - anche nelle piccole comunità del Montefeltro o della campagna ferrarese – è un’adesione a Cristo che ci mette di fronte al mondo come gente che può essere eliminata da un momento all’altro.
E in Italia da tanti anni si parla di emergenza educativa…
Oggi l’emergenza educativa dimostra che si è perduto tempo perché non si è avuto il coraggio di affrontare la necessità di far diventare la Chiesa come aveva chiesto papa Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte: Ambiti di scuola di comunione, quindi di cultura. Adesso il gender è una lebbra che si sta diffondendo nei cuori e in questo ha perfettamente ragione papa Francesco. La questione dell’emergenza educativa è arrivata a livelli tali che o ci svegliamo adesso o non ci svegliamo più, ovvero siamo morti.


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