Gustave Thibon, un genio di proporzioni omeriche

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«Il male più profondo della nostra epoca, secondo Thibon, sta nella perdita di contatto con il reale. Cadiamo nell’irrealismo quando i pensieri, gli affetti e gli atti umani non si trovano più in comunione col loro oggetto concreto. La speculazione astratta è fondamentale, purché non sia privata del contatto con la realtà. Quando ciò accade l’astrazione viene lasciata a se stessa e finisce per dar vita all’irrealismo sotto forma di intellettualismo o di soggettivismo, a seconda che nell’animo prevalga la ragione oppure il sentimento. Da questa “perdita del centro” derivano
i mali della modernità. Un mondo imperniato sul principio dell’uomo come “misura di tutte le cose” è un mondo a costante rischio di dissociazione, dove la violenza si rivela l’unico modo per farsi intendere e ottenere soddisfazione».


È stato pubblicato nei giorni scorsi, per le edizioni Fede & Cultura, a cura di Emiliano Fumaneri, probabilmente il più grande conoscitore in Italia di questo filosofo francese, La libertà dell’ordine. Un sentiero aperto per il ritorno. Si tratta di una antologia di scritti del grande “filosofo-contadino” sulla necessità di riportare Dio al centro per dare un senso alla libertà, all’individuo e alla società, una rassegna di articoli e aforismi di Gustave Thibon che traggono ispirazione da fatti di attualità o da conversazioni di vita quotidiana e che evidenziano la necessità di rimettere al centro di tutto Dio e un ordine del Creato autenticamente vivo, principi messi in crisi dall’odio rivoluzionario. Al curatore Emiliano Fumaneri abbiamo posto qualche domanda.

Può spiegare ai lettori de La FEDE QUOTIDIANA chi è stato questo grande “philosophe-paysan”?

«Gustave Thibon è stato una delle grandi figure del cattolicesimo francese dello scorso secolo. Autore poliedrico, in grado di spaziare dalla filosofia alla poesia, passando anche per il teatro, Thibon nasce il 2 settembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, un piccolo borgo agricolo del Basso Vivarese (sud-est della Francia), da una famiglia di notabili residente nel villaggio da diversi secoli ma solo da poche generazioni ritornata alla cura della terra e alla coltivazione delle vigne. Lasciata la scuola a tredici anni (il padre era stato richiamato dall’esercito), comincia a occuparsi del lavoro dei campi. Il giovane Thibon non ama la scuola. Ama invece la lettura, in particolare la poesia, passione ereditata dal padre. Questo geniale pensatore è autodidatta: poco più che ventenne affronta da solo lo studio delle lingue (impara così il latino, il greco e il tedesco) e si dedica allo studio testi di filosofia, di teologia, di matematica e di biologia. Per questa sua formazione particolare, al di fuori di ogni circuito accademico, diventerà poi noto come il “philosophe-paysan” (“filosofo contadino”). Dopo un’adolescenza agnostica, Thibon ritorna alla fede cattolica. Conosce Jacques Maritain, che lo incoraggia a scrivere i primi articoli di filosofia sulla Revue thomiste. Nel 1940 esce la sua prima opera: Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale. L’anno successivo accoglie presso di sé la filosofa Simone Weil, che gli affiderà i suoi diari prima di partire per gli Stati Uniti. Dopo la sua morte prematura Thibon ne pubblicherà alcuni estratti rivelando così al mondo il genio della Weil. Nel 1943 esce invece Ritorno al reale, che nel titolo riassume la cifra del pensiero thiboniano: la passione per la realtà, che riverserà in decine di altri volumi, segnalandosi per la lucidità del pensiero e per la bellezza stilistica, espressa soprattutto sotto forma di aforisma. La sua esistenza terrena si conclude nel 2001, quasi da centenario, dopo aver attraversato tutto il “secolo breve”, con i suoi drammi e i suoi mutamenti epocali».

Secondo Thibon è “necessario mettere al centro di tutto Dio e un ordine del Creato autenticamente vivo, principi messi in crisi dall’odio rivoluzionario”. In che senso e come è possibile farlo?

«Thibon era piuttosto restio a fornire delle “ricette”. Più che immediate direttive preferiva indicare dei princìpi universali, lasciando poi a ciascuno l’onere – e il privilegio – di cercare di incarnarli nella sua concreta situazione. Uno dei cardini della sua “fisiologia sociale” è il principio di interdipendenza (o di reciproca solidarietà) che per lui rappresentava la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società. Il filosofo francese amava parlare a questo proposito della “comunità di destino” come principio vitale della società. Per capire cosa intendesse prendiamo ad esempio l’equipaggio di una nave, dove ogni membro del corpo sociale, dal capitano al mozzo, ha il suo ruolo e la propria funzione. Il destino della nave accomuna tutti i membri dell’equipaggio, di modo che nessuno può dirsi slegato dagli altri. Così si cementa il senso della comunità (il sentimento del «noi») e anche l’ineguaglianza delle funzioni contribuisce ad incrementare l’armonia sociale. Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide con l’assolvimento del proprio dovere. Il contadino, sempre per fare un esempio concreto, per via delle sue stesse condizioni di vita è immediatamente consapevole che il dovere di coltivare la terra equivale anche a curare il proprio interesse. Non s’inganna la terra, e a poco valgono le astrusità degli utopisti quando si tratta di giudicare se un cavolo è cresciuto bene o male… Ci sono realtà, come quelle naturali, che emettono verdetti senza appello. Pertanto una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla. L’odio rivoluzionario consiste precisamente nel tentativo di scompaginare i legami organici che uniscono l’uomo a Dio e ai sui fratelli in umanità».

Qual è il senso autentico della libertà, dell’individuo e della società secondo Thibon?

«La vera libertà, dice citando il vecchio Seneca, è obbedire a Dio: parere Deo libertas est. Essere liberi non è che la scelta tra due obbedienze: se ci neghiamo agli appelli divini cadremo sotto il dominio delle passioni inferiori e saremo asserviti all’errore e al male. È una sfida di stretta attualità dopo gli attentati islamisti di Parigi. In questi giorni circola una vignetta disegnata da un’anonima fumettista francese subito dopo la strage parigina. La protagonista è Marianne, il simbolo stesso della Francia rivoluzionaria, ritratta come una ragazza nuda, bionda, fiera, che beve vino, ascolta musica, fa l’amore. E la 27ora, il blog del Corriere della Sera, si premura di informarci che questa licenziosa Marianne «è la nostra risposta a Isis». All’ordine senza libertà propugnato dall’islamismo si oppone dunque la libertà senza ordine della Marianne “desnuda”. Il pensiero dominante ci propone questo genere di alternativa: non una scelta tra la libertà e la tirannia, ma la scelta tra due schiavitù sempre pronte a rovesciarsi l’una nell’altra. È la tipica dialettica tra due errori speculari – costata cara all’Europa già ai tempi di Weimar – che Thibon avrebbe senz’altro avversato. Nel libro pubblicato da Fede & Cultura si trova anche un suo articolo del 1975 dove nel pieno del confronto tra mondo occidentale e mondo comunista lo vediamo scrivere parole che oggi sentiamo risuonare come profetiche, sebbene in un contesto socio e geo-politico profondamente mutato: “Chi sarebbe disposto a morire per difendere la società dei consumi, la libertà (forse è meglio dire l’alienazione) sessuale o quel clima di larvata anarchia che detta legge nei rapporti economici e sociali? La putrefazione della libertà è il terreno d’elezione della schiavitù… ”».

Cosa intende per “ordine” Thibon?

«Per Thibon, come per San’Agostino, ordine è sinonimo di armonia. Non si tratta, si badi bene, di una armonia statica (la realtà umana, come accade per ogni organismo vivente, è sempre tensione tra poli opposti). In questo senso Thibon è stato un chiaro esponente del “socratismo cristiano” del XX secolo, quella corrente di pensiero che teneva assieme fede cristiana e fiducia nella metafisica accogliendo al tempo stesso le istanze più valide dell’esistenzialismo. Perciò se Thibon ha ben chiaro che la verità deve diventare anche la mia verità allo stesso modo rifiuta pure di considerare il mondo reale come un cumulo di esperienze e di fatti sconnessi. La realtà possiede una norma oggettiva di verità istillata dal Creatore, origine e fine di tutte le cose. È questa norma a determinarne l’ordine. Solo allora è possibile, analogamente alle leggi che regolano il funzionamento dell’organismo umano, distinguere anche una fisiologia e una patologia del corpo sociale».

Quali sono le citazioni di Thibon che preferisce?

«Difficile rispondere… Ma se proprio devo scegliere, tra le tante “perle” che il philosophe paysan ci ha regalato voglio menzionare questi tre brevi pensieri che parlano dei due amori cari al filosofo-contadino: l’amore per le cose del cielo e per quelle della terra, che fanno corpo unico in un inno alla creazione.

– Le nostre lacrime son fatte per la terra, i nostri sguardi per il cielo. Piangi, innalzando gli occhi.

– «Desiderare è sinonimo di mangiare, e non si può mangiare senza uccidere» (Lanza del Vasto). Per questa ragione, la fedeltà è negata alla cupidigia: non possiamo restar fedeli a quanto abbiamo mangiato e che non esiste più, ma erriamo di preda in preda. Non esiste fedeltà senza distacco; lo stesso amore che mi fa capace di rinunciare al tuo possesso nell’ora della mia bramosia, m’impedirà di ripudiarti nell’ora della mia stanchezza.

– L’amore non è una scintilla effimera, nata dall’incontro di due desideri, è una fiamma eterna sprigionata dalla fusione di due destini».

Dall’agnosticismo Thibon ritorno al cattolicesimo. Chi furono i suoi “maestri nella fede” e come viveva la sua fede?

«Thibon ritorna alla fede cattolica grazie alla lettura di Léon Bloy e all’incontro con Madre Marie-Thérèse du Sacré-Coeur, priora del Carmelo di Avignone. Un’altra influenza decisiva è quella di Jacques Maritain, al quale deve la scoperta dell’opera di San Tommaso d’Aquino. Ma ancor prima del tomismo il suo vero background spirituale è stato proprio il Carmelo. Spiritualmente parlando, la mistica carmelitana è il paese natale  di Thibon. Nel 1931 si farà perfino oblato, indossando l’abito da terziario col nome di Marie-Thomas de Jésus. Si può dire che in tutte le pagine thiboniane si sente, quasi palpabile, il respiro della mistica notturna di San Giovanni della Croce. Come quando scrive, proprio citando il santo carmelitano in uno dei suoi folgoranti aforismi, che “per sperare in Dio solo, bisogna aver disperato di tutto ciò che non è Dio”. Altri importanti riferimenti sono Ludwig von Klages, Blaise Pascal, Charles Péguy, Victor Hugo. Per non dire di Simone Weil. In ultimo citerei anche Friedrich Nietzsche, col quale Thibon si confrontò criticamente per tutta la vita. In Nietzsche egli ama il pensatore dall’animo tempestoso e incapace di mezze misure, ammira il “maestro del sospetto”, il grande demistificatore della falsa morale. Thibon riconosce al solitario di Sils-Maria – che definisce «santo impossibile», perché volle santificarsi appoggiandosi unicamente sulle proprie forze – di aver saputo smascherare quella pseudo bontà che sotto il manto dell’ideale cova i falsi dèi del risentimento, del rancore e della vendetta. Ma se riconosceva meriti di Nietzsche, non per questo il filosofo-contadino mancava di evidenziarne i limiti, in specie il riduzionismo che lo portava a rimproverare al cristianesimo ciò che andava piuttosto imputato alla degenerazione borghese dell’ideale evangelico. Ancora una volta, la via tracciata da Thibon porta a San Giovanni della Croce. Forse, è la sua conclusione, solo nella sua mistica di oscurità la tragedia di Nietzsche avrebbe potuto elevarsi alle vette della santità».

Thibon fece conoscere al mondo la giovane filosofa facendo conoscere al mondo la giovane filosofa Simone Weil. Che idea si era fatto di questa pensatrice?

«Thibon considerava l’ingresso di Simone Weil nella sua vita come una grazia: “è stato l’incontro della mia vita”, ha confessato una volta rievocando il momento in cui, nel luglio del 1941, la accolse presso la propria azienda agricola su richiesta del padre domenicano Joseph-Marie Perrin (assieme al quale avrebbe poi scritto il libro-testimonianza Simone Weil come l’abbiamo conosciuta). Ripeterà sovente che nella vita due persone che gli avevano dato un’immediata impressione di santità, ed erano state due donne: Madre Marie-Thérèse e Simone Weil. Più che il genio del pensiero, in lei Thibon vedeva la purezza della testimonianza, la sete bruciante di verità e di assoluto che per la Weil era la passione centrale della propria esistenza: “Io non ho mai conosciuto un essere più trasparente, voglio dire più docile alla penetrazione della luce”. Ma come con Nietzsche, l’ammirazione e le affinità spirituali non offuscavano la capacità di giudizio di Thibon, che nella filosofa di famiglia ebraica ma educata nell’agnosticismo aveva notato anche una certa asprezza, indice non certo di inautenticità, ma di immaturità nella vita spirituale. La sua vertigine dell’assoluto poi riassumeva la grandezza, ma anche la debolezza della sua dottrina: la Weil era sbalordita dall’assoluto, ma questa attrazione la portava a non curarsi a sufficienza del relativo. Da qui discendeva il suo trasporto per il dualismo. Questa insofferenza per il relativo si ritrovava anche nel suo atteggiamento verso la Chiesa Cattolica: Simone Weil era disposta al limite ad aderire all’anima della Chiesa, ma non al suo corpo visibile, che considerava “impuro”. Nutriva una radicale diffidenza nei confronti della Chiesa in quanto organismo sociale. Le ripugnava l’aspetto “romano” dell’istituzione ecclesiale. Per questo si fermò sulle soglie del battesimo pur aderendo col cuore a Cristo (anche se qualche anno fa “La Civiltà Cattolica” riportò una testimonianza che attestava la sua richiesta di farsi battezzare poco prima di morire di tubercolosi). Thibon la indicò come un esempio di vero ecumenismo: non l’ecumenismo imbastardito che accoglie tutte le religioni mettendole sullo stesso piano, ma un ecumenismo ispirato dalla ricerca della verità».

Thibon ha dichiarato che “mi sono formato a contatto diretto di libri e di testimoni viventi senza passare per i canali della scuola e dell’università”. Crede che oggi sia possibile questo e come si supera, per esempio, il canale della scuola?

«Thibon usava distinguere due modalità di conoscenza: l’istruzione e la cultura. In un caso come nell’altro si tratta di acquisire delle conoscenze. A distinguere le due modalità è la profondità a cui queste si situano. L’istruzione si confonde nei casi estremi con l’informazione, cioè con una accumulazione esteriore di dati senza alcuna partecipazione interiore. La cultura invece implica una partecipazione vitale del soggetto conoscente. Tra l’uomo istruito e l’uomo colto c’è la stessa differenza che passa tra il geografo e l’esploratore. Il geografo conosce a menadito le carte geografiche dei paesi che studia. Ma il suo non è una specie di ricalco astratto. L’esploratore invece si è recato di persona in quegli stessi luoghi. Forse la sua conoscenza teorica sarà meno estesa di quella del geografo, ma in compenso la sua esperienza personale sarà stata più profonda e più reale. L’opposizione a una simile degenerazione della cultura è stata la battaglia portata avanti da Giorgio Israel nella parte finale della sua vita, e che ha avuto come campo di battaglia i temi dell’educazione e della scuola, gradualmente trasformata da luogo di trasmissione delle conoscenze (cioè della cultura) a macchina dispensatrice di competenze (ovvero di informazioni tecnico-pratiche). Ecco, credo che oggi sia una necessità vitale contrastare il rozzo antiumanesimo veicolato dall’ideologia scientistica che va per la maggiore, e questo prima di tutto attraverso un impegno personale volto a riscoprire l’amore per la vera cultura. E che questo sia possibile lo mostra, tra le altre cose, il fatto che dei sei italiani insigniti del Nobel per la letteratura solo due avevano portato a termine il percorso universitario. E in campo cattolico, oltre a Thibon, pensiamo solo a Gilbert Keith Chesterton e a Nicolás Gómez Dávila, attivi – nel modo che sappiamo – nel campo della cultura senza essere passati attraverso quello accademico. Oltre allo scientismo, anche un malinteso devozionismo ha congiurato per farci dimenticare quanto diceva un grande teologo come il cardinale Charles Journet: è vero che la Chiesa, per mezzo dello Spirito Santo che in essa risiede, redime il mondo prima di tutto divinamente, trasformando con la fiamma del suo amore vivente il cuore degli uomini. Ma è altrettanto vero che la Chiesa redime il mondo anche in un altro mondo ancora, cioè umanamente e culturalmente. Essa non troverà riposo finché i valori evangelici non saranno incarnati, fintanto che non saranno riflessi nell’ordine temporale.Pertanto l’azione culturale (la “battaglia delle idee”) ha un’importanza decisiva e non va disattesa in un nome di uno spiritualismo disincarnato. Anche in questo ordine di realtà bisogna ripristinare quella che papa Francesco da buon gesuita ha chiamato “dimensione belligerante della vita apostolica”. Il cristiano che abbraccia la Croce sa che seguire il cammino del Signore comporterà ostilità e persecuzione. Perciò bisogna lottare, dice il Papa, a patto di saper lottare «nel modo divino», senza confondere cioè la battaglia con la baraonda (come fanno i paranoici che coltivano una «spiritualità da vittima di complotto») ma anche senza ricercare una pace fasulla per il timore di battersi (come fanno coloro che “hanno immolato la propria vita sugli altari di un irenismo tanto infecondo quanto inefficace”).

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