Coscienza oggettiva e coscienza soggettiva

di P. Giovanni Cavalcoli
La questione della coscienza è sempre di attualità. La coscienza teoretica o gnoseologica ha avuto un forte impulso in campo filosofico a partire da Cartesio, che ha appunto posto l'autocoscienza o coscienza del sé pensante (cogito) a fondamento e principio del suo pensiero. Ma la coscienza che più comunemente ci interessa, è la coscienza morale, che comunque dipende da come noi intendiamo la coscienza speculativa o gnoseologica.
In generale, la coscienza è un atto o un abito dello spirito, per il quale il nostro intelletto riflette su se stesso e sui suoi
contenuti o atti interiori, intuizioni, esperienze, concetti, idee, immagini, impressioni, giudizi, conoscenze, ricordi ed anche sui contenuti della volontà: volizioni, impulsi, desideri, esigenze, bisogni, aspirazioni, giudizi morali o degli appetiti: passioni, sensazioni, inclinazioni, attitudini, propensioni, emozioni, istinti, sentimenti, gusti, disposizioni, abitudini.
Il conscio o consapevole si distingue dall'inconscio o inconsapevole. Nel conscio compio un atto sapendo di compierlo: me ne rendo conto. L'inconscio invece è un mondo interiore ricco di contenuti, ma nascosti e comunque non coscienti. Può essere abituale o attuale. Abituale è l'atto o contenuto che non è cosciente o di cui al momento non abbiamo coscienza o consapevolezza. Inconsci attuali invece sono quegli atti che compiamo senza sapere di compierli, quasi di impulso, senza rifletterci su. Non ce ne rendiamo conto.
L'inconscio abituale conserva gli atti o contenuti intenzionali nascosti o latenti nello spirito, ricevuti, acquisiti o compiuti in precedenza. Essi possono emergere alla coscienza spontaneamente, da soli o in occasione di qualche fatto o evento o possono essere evocati volutamente.
L'abituale è un qualcosa - per esempio un ricordo - che ho nella memoria, ma che adesso non faccio passare o non riesco a far passare all'atto, ossia alla coscienza; non lo evoco. Per esempio, un sapere o una virtù o un'arte che possediamo. Il pianista che attualmente non suona, sa come si suona, ma attualmente lo sa solo inconsciamente. Io posso sapere (inconscio), ma non necessariamente sapere di sapere (conscio).
La conoscenza comincia in modo spontaneo ed inconscio e poi diventa riflessa: la coscienza. Platone confondeva il conoscere col ricordare o col riconoscere, perché non ammetteva che la nostra mente passi dall'ignoranza ("tabula rasa") al sapere; ma secondo lui la mente, originariamente divina, sa tutto sin dall'inizio, per cui ciò che crede di imparare non è altro che un evocare ciò che già sa. 
Famosa è rimasta la confutazione di questa teoria da parte di Aristotele, il quale invece dimostrò che il nostro sapere viene dall'esperienza, per cui è impossibile conoscere qualcosa di sensibile se prima non ne abbiamo fatto esperienza, adducendo il semplicissimo esempio di chi nasce cieco, il quale non sa che cosa è il colore. Quanto alle cose sovrasensibili o spirituali, Aristotele dimostrò che anch'esse per analogia, per induzione e per causalità, le conosciamo partendo dall'esperienza. 
Il problema della coscienza è anzitutto legato al problema della verità: verità speculativa, per esempio l'esistenza e l'essenza delle cose al di fuori di noi, esistenza ed essenza dell'anima, di Dio o degli altri, l'esistenza e la natura della stessa verità. C'è pure la verità pratica o morale: l'esistenza, l'essenza e la distinzione fra il bene e il male, il volontario e l'involontario, il lecito e l'illecito, il permesso e il proibito, la giustizia e il peccato, l'innocenza e la colpa, i fini e i mezzi, l'obbligatorio e il facoltativo, la salvezza e la perdizione, il premio e il castigo.
La coscienza è una conseguenza della conoscenza. Se questa è verace, allora la coscienza coglie la verità, è oggettiva, ossia coglie l'oggetto o la cosa o il valore così come è in sé, al di fuori del soggetto, "davanti" o "di fronte" al soggetto (ob-iectum), perché la coscienza non è altro che la riflessione su ciò che, bene o male, abbiamo conosciuto o pensato o sperimentato.
Per questo, prima dell'atto di conoscere un oggetto, la coscienza è vuota rispetto a quell'oggetto. Non posso aver coscienza di conoscere mio zio, se prima non ho conosciuto mio zio. Viceversa posso conoscere mio zio senza riflettere sul fatto che lo conosco o sulla mia conoscenza di mio zio. Certo, in qualunque sapere so di sapere, ma non necessariamente prendo ad oggetto il mio stesso sapere. Chi conosce la verità, sa di conoscerla, ma non necessariamente riflette sul suo sapere la verità.
Un conto è la riflessione su di un qualcosa che so e un conto è la riflessione sulla stessa rappresentazione di questo qualcosa. Il primo tipo di riflessione è più propriamente la consapevolezza, tocca la morale e in generale la realtà; il secondo appartiene alla logica, e riguarda il pensiero. Entrambi questi atti appartengono alla coscienza e possono essere veraci od oggettivi, ma anche errati in buona o cattiva fede.
Di ciò che ho nella mia coscienza a livello di idea o rappresentazione interiore o, come si dice, a livello intenzionale, sono certo di averlo e di conoscerlo veracemente. Non mi è difficile prender coscienza o ricordarmi delle mie idee teoretiche o morali. 
Il problema è semmai se queste idee corrispondono o no alla realtà. Infatti è possibile che mi sbagli, ossia che la mia rappresentazione non rifletta fedelmente la realtà; è possibile che ciò che a me pare bene non sia effettivamente bene e che prenda per vero ciò che è falso.
Ciò può avvenire non necessariamente per cattiva volontà o cattiva intenzione, ma in buona fede, senza accorgersi, senza la consapevolezza di far bene o male, per cui si ha la cosiddetta "ignoranza invincibile", per la quale, se uno commette oggettivamente un peccato, resta innocente, e il peccato non deve essergli imputato, fosse anche un peccato grave. Se invece uno crede che sia male ciò che è bene, e lo fa, diventa colpevole davanti a Dio. Vediamo quanto Dio rispetta il giudizio della nostra coscienza.
Nel caso invece nel quale il soggetto crede bene ciò che è male, non incorre propriamente in una colpa, ma commette un semplice errore o sbaglio, per quanto possa essere grave, errore che è appunto un atto cattivo commesso senza conoscere la sua malizia, ovvero senza saperlo e senza volerlo (senza "piena avvertenza e deliberato consenso"). 
In questo caso si ha un atto oggettivamente cattivo che può essere soggettivamente buono (coscienza soggettiva). Esso può recare danno all'agente ed ad altri, ma l'agente resta senza colpa e non va quindi punito. Un tale che senza saperlo beve del veleno, certamente muore, ma non si può parlare di suicidio.
Questi errori possono dipendere da diversi fattori non sempre colpevoli, ma che offuscano il giudizio e possono più o meno avvicinarsi alla colpa: disattenzione, distrazione, stanchezza, dimenticanza, fretta, superficialità, precipitazione, influsso della passione, intelligenza limitata, mancanza di educazione, vittima di inganno o di frode, demenza, delirio. 
La coscienza, sia speculativa che morale, può sbagliarsi nei valori secondari o derivati, che toccano le verità create, come i doveri verso se stessi, verso gli altri o verso la natura, ma non può errare involontariamente nel suo rapporto diretto o indiretto, esplicito o implicito con Dio. Rapporto indiretto ed implicito è l'amore del prossimo.
Tutti infatti, esplicitamente o implicitamente, coscientemente o inconsapevolmente, come accenna la Lumen Gentium (n.16), sanno che Dio esiste. È impossibile ignorare in buona fede che Egli esiste, come è possibile non sapere senza colpa quante sono le isole dell'arcipelago delle Filippine. Negare quindi o ignorare l'esistenza di Dio ed opporsi a Lui non può essere senza colpa. 
Infatti la sana ragione, anche non educata dalla cultura solo che la si sia lasciata libera di compiere il suo normale, percorso che dall'effetto risale alla causa, giunge spontaneamente e necessariamente a sapere con certezza che Dio esiste. È infatti possibile dimostrare razionalmente che Egli esiste ed è invece impossibile dimostrare che non esiste.
Da qui discende che l'ateismo, per quanto paia aver le sue ragioni, a meno che non ci sia un equivoco, è un'assurdità e una colpa. Per sapere che Dio esiste non occorre essere dei teologi, risolvere i dubbi posti da Kant nella Critica della ragion pura, e conoscere le cinque vie di S. Tommaso. Basta lasciar funzionare la ragione naturale. Anche un bambino ci arriva. La coscienza morale nasce prestissimo nell'individuo.
 Se la coscienza erra quindi nel rapporto con Dio, non è scusata, ma pecca, perché onorare Dio il primo di tutti i doveri ed ogni uomo ragionevole e sano di mente sa con certezza, almeno implicitamente, quali sono i suoi doveri fondamentali. 
Si può invece errare in buona fede in quei doveri derivati, che richiedono una certa dimostrazione, deduzione, istruzione, cultura, educazione o informazione. Non parliamo poi delle mutevoli leggi positive emanate dallo Stato e dalla Chiesa. Infatti, a causa della fallibilità della ragione, conseguente al peccato originale, è possibile per vari motivi che erri in queste materie in buona fede. 
Per esempio, uno può credere in buona fede che i rapporti sessuali prematrimoniali o la dittatura politica o il suicidio o la menzogna siano leciti o che la Messa sia un'idolatria o che il Papa sia l'Anticristo o che il Salvatore sia Maometto. Ma almeno implicitamente tutti conoscono il dovere di essere onesti, sanno che esiste la verità, che il bene è distinto dal male, che "Dio esiste e che ricompensa coloro che lo cercano" (Eb 11,6). L'ateismo, dunque, lo ripeto, è una colpa morale; a meno che non si tratti di una conoscenza implicita di Dio sotto mentite spoglie.
Altrimenti, supponendo che si possa ignorare in buona fede che Dio esiste, e che quindi creda che sia lecito adorare se stessi o un idolo senza colpa o fare qualsiasi nefandezza in buona fede, ci sarebbero persone dispensate dal dovere di osservare i divini comandamenti e di render conto a Dio del proprio operato, contrariamente a quello che insegna la Scrittura, per cui andrebbero all'inferno per aver peccato ma senza colpa o si salverebbero perché in buona fede ma senza merito; il che è assurdo e contrario alla giustizia divina. 
Tutti i valori morali sono criteriati su Dio. A chi dunque negasse Dio, come giustamente dice Dostojevsky, ogni delitto sarebbe permesso e sarebbe scusato di tutto. E se ne fece l'esperienza con la Rivoluzione Russa, che di lì a poco sarebbe avvenuta. Grazie a Dio, anche i cosiddetti atei generalmente non hanno il coraggio di andare fino in fondo; altrimenti sarebbero dei mostri di immoralità.
Siccome tutti invece dobbiamo render conto a Lui del nostro operato, tutti, nei modi più diversi ed anche imperfetti, sappiamo che esiste, anche se è possibile certo onorarLo senza saperlo servendo il prossimo (cf Mt 25, 31-46). 
È possibile certo non avere di Lui una nozione sufficientemente pura o cadere in qualche errore involontario su di Lui o sui princìpi primi del sapere e della morale, come capita al di fuori del cattolicesimo e soprattutto nelle religioni non cristiane. Ma nelle cose necessarie alla salvezza, prima delle quali è l'obbedire a Dio, la ragione, sostenuta dalla grazia, se vuole, è infallibile; e se erra, è colpa sua. Falsa è quindi la tesi di Rahner che anche l'ateo possa salvarsi.
Il peccato originale ha indebolito la ragione, ma non l'ha distrutta: l'uomo resta sempre uomo, animal rationale. Non è una bestia. È un po' come una casa terremotata, che ha conservato le fondamenta, anche se i muri e i tetti sono crollati. Sulla base di quelle fondamenta la casa può essere ricostruita. 
Così, per quanto riguarda i valori fondamentali, la coscienza, li capisce da sé. Nella costruzione dell'edificio, invece, dev'essere aiutata, illuminata e corretta. Qui può commettere errori in buona fede o anche veri e propri peccati. Da qui viene il diritto alla libertà religiosa. I fondamenti rimangono intatti. 
Ma nei princìpi primi del pensare e del volere, la cui negazione mette a repentaglio la convivenza religiosa e civile, c'è senz'altro la colpa e l'ignoranza non può essere ammessa né può essere tollerata, a meno che uno non sia un pazzo. E comunque, da un simile soggetto occorre difendersi.
Una falsa concezione della coscienza soggettiva, che di per sé è cosa normale e frequente anche nelle persone attente, colte, diligenti ed oneste, in quanto universale ed inevitabile conseguenza del peccato originale, che ha indebolito l'acume della coscienza morale e quindi la sua oggettività, è il soggettivismo, per il quale il soggetto è concepito come un assoluto autoreferenziale fondato su se stesso, se non proprio come l'Assoluto. 
L'autonomia della coscienza nel soggettivismo acquista dimensioni ipertrofiche e mostruose e pretese spropositate e non si accontenta più di determinare norme particolari (leggi positive) nell'ambito della legge naturale, come sarebbe sua competenza, ma pretende legiferare sulla stessa natura umana, come se questa fosse un prodotto dell'uomo e non piuttosto Dio fosse l'autore della natura umana. 
In tal caso la coscienza di questo soggetto non è intesa come facoltà tenuta ad adeguarsi a una realtà o verità o regola oggettiva di pensiero e di comportamento, indipendente dalla coscienza del soggetto, fondata su Dio creatore e legislatore, norma assoluta e suprema del bene e del male. 
Occorre sempre agire in coscienza o secondo coscienza. Essa è la regola prossima immediata della nostra azione. Dobbiamo rispondere davanti alla nostra coscienza e dobbiamo rispondere a Dio in base a ciò che ci dice la nostra coscienza, non quella degli altri. Ognuno deve giudicare bene o male ciò che appare alla sua coscienza. 
Se però uno è convinto di errore da parte da un saggio accusatore, non deve tirar fuori la coscienza onde evitare di arrendersi alla verità, come probabilmente fece Lutero alla Dieta di Worms, quando fu messo davanti alle sue responsabilità. Se ci si mostra che sbagliamo, l'appello alla coscienza è un'ipocrisia.
Per questo l'uomo è tenuto a istruire la coscienza, ad informarla, ad affinarla, ad aggiornarla e ed formarla, perché essa deve sforzarsi con onestà di essere oggettiva, ossia di apprendere i veri valori morali, "non negoziabili"", che derivano nella natura umana dalla volontà di Dio. 
L'oggettivo non è un prodotto del soggettivo, come credono gli idealisti, ma va regolato sull'oggettivo, che rimanda a Dio, anche se Dio rispetta il giudizio soggettivo in buona fede. Ciò però non giustifica affatto il soggettivismo morale.
Il quale infatti discende da un soggettivismo gnoseologico, per il quale il vero non è ciò che è in sé, sempre e per tutti, ma ciò che sembra o pare a me singolo qui ed ora (o come particolare collettività), un agire o un bene apparente non regolato da un bene comune a tutti, ma che fonda se stesso secondo l'arbitrio assoluto della propria volontà, sit pro ratione voluntas, in altre parole, del proprio egoismo. Il soggetto non obbedisce alla legge, ma è legge a se stesso.
Il sembrare (videtur), il pensato, l'opinabile, sostituisce l'essere. E poiché ciò che sembra, non necessariamente è il vero, assolutizzando il sembrare, l'individuo crede di non sbagliare mai perché non distingue più le sue idee dalla realtà, né ciò che è da ciò che appare o sembra a lui. Non trasgredisce mai la legge perché egli stesso la stabilisce.
La coscienza soggettiva è cosa rispettabile e potremmo dire sacra; ma da sola non basta sempre per stabilire fondatamente il bene e il male, perché essa è fallibile e deve regolarsi sulla coscienza oggettiva, a sua volta attenta alla legge divina. La coscienza soggettiva basta nel senso che all'atto pratico e in fin dei conti dobbiamo seguire quello che essa ci dice, là dove Dio, come diceva S. Bonaventura, ci parla.
Ma dobbiamo farlo con onestà e non come scusa per fare quello che ci pare e piace. E non è sempre facile distinguere la voce di Dio dalla nostra. Occorre allora distinguere una coscienza soggettiva onesta da una coscienza soggettiva disonesta.
In concreto, non possiamo sempre sapere se il peccato commesso da un altro lo ha commesso in buona o cattiva fede e se ha scusanti e quali sono. Non si deve scusare sempre col pretesto della "diversità", ma occorre anche evitare i giudizi affrettati, malevoli e farisaici, basati su criteri soggettivi o discutibili.
Non è difficile riconoscere un atto oggettivamente peccaminoso. Basta una buona scienza morale e seguire il Magistero della Chiesa.  È molto più difficile sapere nei singoli casi se l'altro ha o non ha colpa. Badiamo soprattutto a riconoscere le nostre colpe. La conoscenza di sè (coscienza) è più facile della conoscenza dell'altro. Questo non è un lavoro impossibile. Le colpe degli altri certo dobbiamo fraternamente correggerle, ma lasciamo a Dio il giudizio ultimo.

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