Un’impietosa analisi dei problemi della Chiesa


di Giovanni Lugaresi
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Vivesse oggi Antonio Rosmini tornerebbe a scrivere delle Cinque piaghe della Chiesa? Certamente, e pure con qualche aggiunta.
Prendiamo il discorso sull’ignoranza del clero. Beh, se si assistette all’inizio del ventesimo secolo a una sorta di recupero, tanto che nei seminari (sino alla fine degli anni Sessanta-Settanta) si trovavano sacerdoti senza laurea ma impareggiabili insegnanti di latino, greco, letteratura italiana, filosofia, storia naturale, le cui conoscenze superavano
spesso quelle dei docenti delle scuole laiche, beh, oggigiorno appare difficile, molto difficile, trovarli!
Esperti magari in sociologia e psicologia, conoscono magari Freud ma non San Tommaso, hanno letto Moravia e Pasolini, ma non sanno nulla di don Giuseppe De Luca e di padre Clemente Rebora… e lasciamo perdere tante altre cose.
A questa considerazione ci ha indotto la lettura di un testo animato dalla fede, scritto con chiarezza e soprattutto con competenza nel ripercorrere “Duemila anni di linguaggio anticlericale nelle parole dei santi”, come recita il suo sottotitolo.
 Si tratta di “Quello che i preti non dicono (più)” di Paolo Gambi (Fede & Cultura Verona; pagine 151, Euro 11,00).
Gambi, editorialista del nostro quotidiano, e autore di numerosi libri, per il suo “viaggio” (argomentato) prende lo spunto da un dato di fatto constatabile da chiunque non abbia paraocchi e/o pregiudizi.
Ecco il dato: nelle nostre chiese, le messe domenicali sono frequentate soprattutto da gente anziana; mancano i giovani.
Considerazione dopo conseguente domanda di chi la colpa? Bando alle scuse (discoteche, complotto massonico, modernità, televisione) e guardiamo in  faccia alla realtà come Gambi impone: “Mai nessuno che abbia il coraggio di dire con chiarezza: è colpa dei preti. E’ colpa un po’ di tutti noi cattolici… pretendiamo sempre dagli altri mille virtù, per poi sguazzare nel fango delle nostre miserie…”.
Ma soprattutto “è colpa della nostra classe dirigente – cioè del clero e più ancora dei vescovi – che ancora non è stata capace di trovare un linguaggio per trasmettere la grandezza dell’essere cristiani al presente”.
Gambi sottolinea poi i vari segni di un anticlericalismo che un tempo aveva i connotati della opposizione al dominio temporale della Chiesa; “chi si opponeva a quel potere clericale non faceva questa sua battaglia all’interno delle mura della Chiesa, con lo scopo di emendarla, ma al di fuori di essa, per distruggerla, aderendo ad altre filosofie di vita o ideologie politiche”.
Ma avverte pure che nella Chiesa medesima c’è sempre stato (anche quando il termine non esisteva) un autentico, sano anticlericalismo, teso cioè a purificare, emendare la Catholica dai limiti, dalle miserie, dalle colpe, dai peccati dei suoi esponenti.
Così, ecco evidenziati i peccati, in primis la sete di potere, alla quale è strettamente collegato il carrierismo (in Vaticano ne sanno qualcosa!); poi il desiderio di denaro; ancora, le contese, le ire, i dissensi all’interno del mondo cattolico, denunciati già da san Paolo, con un particolare riferimento alla incomprensione nei confronti di chi, pur fratello nella fede, non la pensa come noi.
Significativo e naturalmente assai benemerito è il fatto che l’autore indichi chiaramente le pezze d’appoggio al suo argomentare. Pezze d’appoggio che partono dai Padri per arrivare a Josemarìa Escrivà de Balaguer e a Benedetto XVI, attraverso Papa Gregorio Magno, il nostro (nel senso di romagnolo) San Pier Damiani, San Francesco, Santa Caterina da Siena, Savonarola, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il già citato beato Antonio Rosmini, per fare nomi significativi.
Del fondatore dell’Opus Dei, per stare ai giorni nostri, Gambi sottolinea il particolare anticlericalismo, con una citazione che non lascia dubbi: “Anch’io sono un anticlericale perché mi piace che il clero rimanga clero, che non cerchi di imbrogliare, che si limiti alla sua missione spirituale”.
Sottolinea l’autore che, a quanto risulta, questi è “il primo santo della Chiesa cattolica ad autodefinirsi formalmente e pubblicamente anticlericale sulla base di quel nuovo termine ottocentesco”!
Appare del tutto evidente - e lo sottolineiamo ancora - che nella disamina di Gambi, al centro di tutto ci sia una enorme responsabilità dei sacerdoti e dei vescovi, che anzi che indicarci la luna in mezzo al cielo, ci invitano ad ammirare il loro dito!!! Quando (e quanto) invece sappiamo ci sia bisogno di un altro tipo di indicazioni, di predicazione, di esortazione.
 Perché il bisogno di parole di vita eterna è sempre presente, inestinguibile. E chi, se non loro, preti, frati, vescovi, sono gli “addetti” - per così dire - a questa trasmissione lungo i millenni e in ogni angolo della Terra?
Annunciare Gesù Cristo e non andare dietro alle mode e alle ideologie: questo avrebbero dovuto fare tanti uomini di Chiesa che in questi ultimi vent’anni (noi diciamo anche trenta), invece, hanno percorso strade diverse - denuncia Gambi riecheggiando Antonio Socci, un laico di grande fede.
E, stringi stringi, è questo che tanti di noi avrebbero voluto e vorrebbero.
Perché le mode e le ideologie passano, ma quella di Gesù è “la parola che non passa”.
La Voce di Romagna, 26 maggio 2012

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